Da queste parti avevamo “scommesso” sul successo di questo festival già un bel po’ di anni fa, in tempi non sospetti: quando era un evento per (relativamente) pochi appassionati, con una line-up di gran classe, in una location tanto funzionale (per le “dimensioni” dell’epoca) quanto surreale (il kitchissimo “Poble Espanyol”). L’edizione di quest’anno del festival catalano sancisce definitivamente il successo di un evento che è ormai diventato appuntamento imprescindibile per chiunque abbia la voglia e la possibilità di abbinare una quantità impressionante di ottima musica ad un soggiorno in quella che – nonostante la crisi, nonostante tutto – resta una della più vivaci città d’Europa.
Il Primavera Sound di quest’anno ha fatto godere le orecchie di quasi centocinquantamila persone, registrando il suo record di presenze (nonostante ci fosse, l’ultimo giorno, la finale di Champions League con protagonista la squadra di casa) e la consacrazione a status di “festival dell’anno”, ancor prima che tutti gli altri in giro dell’Europa avessero luogo.
Un programma che ancora una volta miscela sapientemente “vecchie volpi” e nuove tendenze (inevitabile lo sguardo ravvicinato alla scena dubstep e dintorni), pilastri della scena indie-rock internazionale e “next-big-things”, realtà locali e una miriade di band che “solo-quelli-del-Primavera-potevano-pensare-di-chiamare”.
La location (l’enorme parco del Forum) sembra concepita appositamente per il festival e l’organizzazione è ancora una volta di quelle cui è difficile contestare qualcosa (a parte il “neo” del sistema di acquisto ai bar tramite card ricaricabili che è andato in tilt il primo giorno creando qualche disagio).
E’ tecnicamente impossibile pensare di raccontare tutto il festival in un articolo, per motivi pratici (inevitabile – a meno di possedere il dono dell’ubiquità – un racconto assolutamente parziale), e di spazio (se si volessero recensire i singoli concerti, servirebbe un reportage chilometrico). In ogni caso, proviamoci.
primo giorno / 28 maggio
Il primo giorno per il sottoscritto inizia con l’esibizione dei Blank Dogs, gruppetto post-punk Newyorkese, il cui sound è una sorta di rivisitazione della lezione dei Joy Division in chiave electro-rock lo-fi. Impresentabili nel look e fastidiosamente svogliati nell’approccio al palco, hanno comunque in repertorio una manciata di canzoni che si fanno ascoltare con piacere, con la brezza del mare alle spalle. Tutt’altra atmosfera di respira sul palco degli Of Montreal, dove l’eccesso è la regola: le terrificanti calze rosse del frontman Kevin Barnes, piume, pailettes, lottatori di lucha libre con tanto di arbitro, coriandoli, body-surfers acrobatici fanno da contorno ad un concerto fantastico, quello di una band capace di infilare una dietro l’altra canzoni dalle melodie irresistibili (perché “A sentence of sorts in Kongsvinger” non è considerato un classico del pop?), scintillanti e glam (“Suffer for Fashion”), dall’incedere irresistibile (“Heimdalsgate Like a Promethean Curse”). Non finirò mai di considerarli come uno dei gruppi più sottovalutati di sempre (anche se qui la platea è decisamente “sostanziosa”).
Per arrivare in tempo per il concerto dei P.I.L. al “Llevant Stage” devo attraversare tutta l’area-festival (credetemi, non è poco) a passo veloce. La sfacchinata però viene ricompensata a pieno. Certo, John Lydon, grasso e sudato nel suo improbabile lungo impermeabile si conferma il solito paraculo (“We are the only friends you got in the music industry, ‘cause we don’t want their fuckin’ money and we give your our heart and our soul”, blatera nel microfono con gli occhi spiritati), ma, signori, che botta!
Il sound di questi ragazzacci è incredibilmente compatto e potente, e l’enorme quantità di band che negli ultimi anni ha saccheggiato a piene mani questi riff, questo approccio, lo rende quanto mai attuale. La sezione ritmica è precisa, a servizio di groove profondi e minimali, mentre l’aspetto “abrasivo” del suono della band è appannaggio dello spiritato Robert “Lu” Edmonds, che affida i suoi accordi taglienti più a strumenti turchi (un Cümbüs, un Saz) elettrificati che alla tradizionale chitarra elettrica. Le urla di Lydon si fanno devastanti in “Albatros” e si scontrano col groove dance della conclusiva “Open Up”. L’irresistibile ritmica di “Warrior”, l’angosciante cadenza della lancinante “Religion”, la melodia dell’agrodolce “Rise” sono solo alcuni dei momenti memorabili, in un concerto praticamente perfetto.
Alle orecchie ancora fumanti per il concerto dei P.I.L. decido di risparmiare il furore dei Grinderman, raggiungendo il palco dove sono di scena i The Walkmen. Impossibile non notare immediatamente quanta gente sia qui per loro (almeno diecimila persone). E la band di New York ce la mette tutta per non deludere le attese. Nonostante il suo aspetto più da impiegato di banca che da frontman di una rock band, Hamilton Leithauser riesce a trasmettere sul palco tutto il pathos di cui sono intrise queste splendide canzoni barcollanti (“Wake Up”), nervose e ruvide (“Victory”, “Angela Surf City”), apparentemente fragili (“Juveniles”). Bravi, davvero.
Cambio ancora una volta palco, e mi ritrovo un’altra band newyorkese, di tutt’altra epoca e di tutt’altra pasta. I due signori attempati sul palco rispondono al nome di Suicide e sono qui per suonare per intero il loro omonimo, mitologico album d’esordio. Dopo trenta secondi dall’inizio del concerto, le melodie malinconiche dei Walkmen sono un lontano ricordo. Martin Rev e Alan Vega sembrano alieni sbarcati da un’altra galassia, o dei sopravvissuti ad un’apocalisse, o “semplicemente” due zombie. Suonano le canzoni di “Suicide” con (semmai fosse possibile) ancora più cattiveria, cinismo e violenza che nelle versioni originali, facendo sprofondare i presenti (sempre meno man mano che il concerto va avanti, in verità) in un incubo industrial-noise senza via di scampo. Personalmente resisto fino alla terrificante “Frankie Teardrop”. Poi decido di preferire la vita, e iniziare a pregustare l’attesa per il live dei Flaming Lips, headliner di questa prima giornata di festival, attesi on-stage alle 02.15.
Tutti – fan e non fan – dovrebbero prima o poi vedere un concerto dei Flaming Lips. Fosse anche solo per regalarsi una marea di sorrisi (quante volte sorridete, di solito, durante un concerto? pochissime, scommetto), e per riempirsi gli occhi di colori. Quello visto al Primavera Sound non passerà alla storia come uno dei loro migliori concerti, non c’è dubbio. Ma un concerto dei Flaming Lips è sempre e comunque, un grandissimo spettacolo. Wayne Coyne questa volta era davvero troppo “su di giri”, e la sua voglia incontenibile di infiammare la platea l’ha forse distolto troppo spesso dal concentrarsi sull’esecuzione delle sue splendide, folli canzoni, ma va bene così. L’abbiamo visto camminare sulle nostre teste rinchiuso nella sua “space bubble”, sparare un milione di cannoni caricati a coriandoli, impegnarsi a far scoppiare il maggior numero possibile di mega-palloncini colorati con la sua chitarra, proiettare dei raggi laser fuoriuscenti da gigantesche mani finte sulla mirrorball montata sul palco. Abbiamo visto i personaggi del mondo di Oz agitarsi ai lati del palco, e giochi di luci e trucchi di scena da freak-show psichedelico. Ma “dentro” quest’esplosione di colori ed effetti speciali si è potuto godere anche di canzoni incredibili. Le allucinazioni di “The Captain is a Cold Hearted and Egotistical Fool”, il sapore 90’s di “She don’t use jelly”, la gioiosa leggerezza di “The Yeah Yeah Yeah Song”, la malinconia surreale di “Yoshimi Battles the Pink Robots”, le melodie maestose e semplicemente commoventi di “What Is The Light?” (con un bellissimo supporto video), “Race For The Prize” e l’immancabile “Do You Realize?”. Criticare razionalmente un concerto dei Flaming Lips lascia il tempo che trova. Viverselo è un’esperienza sicuramente più avvincente.
secondo giorno / 29 maggio
Se una band “minore” della scena post-punk inglese di fine ’70 decide di ri-formarsi, puoi star certo che la ritroverai nel cartellone del Primavera Sound. Non sono sfuggiti a questa sorta di regola non scritta i The Monochrome Set, band con cui decido di inaugurare il secondo giorno di festival. Un live tutt’altro che indimenticabile, ma che si fa seguire volentieri. Ben più avvincente lo show dei Pere Ubu, alle prese con uno spettacolo incentrato su “The Modern Dance”. Ovvero come un signore piuttosto avanti con l’età, in bretelle e fiaschetta di whisky in mano (molto più simile al classico vecchio ubriacone di paese che ad un’icona del rock “altro”) riesce a far pogare e cantare a squarciagola centinaia di giovani fans (come succede sulla travolgente “Non-Alignment Pact”, ad esempio). David Thomas, in ogni caso, è dimagrito parecchio. Ma la cattiveria e il cinismo non sono andati via con i chili in eccesso. Per fortuna.
Raggiungo il palco “ATP” giusto in tempo per ascoltare gli ultimi pezzi degli sgangheratissimi Half Japanese. Adorabili, nel loro essere talmente goffi da decidere di eseguire un bis senza manco rendersi conto che nel frattempo il fonico aveva già fatto partire un CD di “sottofondo” nell’impianto, avendoli visti andar via dal palco.
Sullo stesso palco, alle undici in punto, c’è una band che desideravo vedere dal vivo da almeno dieci anni, i Low. Ed è dalle prime note di “Nothing But Heart” che capisci che si tratta di uno di quei concerti che difficilmente dimenticherai. Il set ultra-minimale (chitarra, un set di batteria ridotto ai minimi termini, senza nemmeno la grancassa, basso e piano elettrico) è tutt’altro che un limite: il loro sound scarno, scheletrico, è quanto mai carico di tensione emotiva. Ogni singola nota di chitarra di Alan Sparhawk è un colpo al cuore, i tamburi percossi da Mimi Parker “riempiono” le canzoni di un pulsare lento e vitale, il basso avvolge il tutto dando un tocco di morbidezza. “Silver Rider”, “Last Snowstorm of the year” e la recente “Try To Sleep” sono pure esperienze catartiche, vissute dal pubblico in religioso silenzio. Le distorsioni e le melodie ariose della conclusiva “Canada” suonano come il risveglio da un sogno. Un concerto spettacolare.
Tanta bellezza finisce per condizionare il mio giudizio sui Deerhunter, accolti come vere e proprie star, ma che finiscono per annoiarmi dopo una manciata di canzoni. Semplicemente non riesco a comprendere il motivo di tanto entusiasmo, quindi decido di andare a sbirciare un po’ quei mattacchioni degli Shellac, che come al solito si divertono ad alternare i loro brutali attacchi sonici, fatti di repentini stop-and-go, sferragliate in libertà e riff assassini, con atteggiamenti provocatori, battute in salsa “senso-dell’umorismo-di-Steve-Albini” e cazzeggi assortiti. Almeno non si prendono sul serio come i Pulp, star della serata, cui onestamente non riesco a dedicare più di un ascolto distratto.
terzo giorno / 30 maggio
Tipica band di quelle che puoi pensare di vedere solo al Primavera Sound, ecco poco prima delle sette di sera riscaldare il pubblico del “Ray Ban Stage” i Papas Fritas, freschi di reunion. Le loro canzoni leggere e senza grosse pretese (ma come resistere dal muovere perlomeno il piede a tempo su “Afterall” e “Say Goodbye”?) sono un antipasto perfetto per affrontare una lunga nuova giornata di festival.
Perfetti per il tramonto si rivelano i Fleet Foxes. Un concerto cui mi approccio con un carico di diffidenza alimentata dall’incredibile hype che avvolge questi ragazzi già dal loro esordio. Ebbene, la diffidenza finisce inevitabilmente per sciogliersi come neve al sole dopo una manciata di minuti. La scaletta del concerto è perfetta, ma è soprattutto l’esecuzione dei brani a lasciare senza fiato: gli incastri vocali, così finemente intrecciati su disco, come gli arrangiamenti eleganti e curatissimi, sul palco sono riprodotti in maniera semplicemente perfetta. La band è sorridente, l’atmosfera rilassata, la canzoni galleggiano sulle teste ondeggianti di una platea semplicemente rapìta da queste melodie senza tempo. Le recentissime “Battery Kinzie” e “Helplessness Blues” hanno già il sapore dei classici, “Mykonos” si conferma come semplicemente una delle più belle canzoni scritte negli ultimi dieci anni, “White Winter Hymnal” e “He Doesn’t Know Why” ti sciolgono il cuore. Il fatto che di originale, nella loro proposta musicale, ci sia ben poco, e che il loro approccio per così dire “vintage” sia fin troppo ostentato, sono aspetti che passano assolutamente in secondo piano. Se si è in grado di proporre un concerto così semplicemente perfetto, tutto il resto conta poco.
Dopo una fila estenuante, riesco a conquistare un posto nello splendido Auditorium del Forum per il live dei Mercury Rev, alle prese con l’esecuzione per intero del loro capolavoro “Deserter’s Songs”. Per quanto questa nuova moda dei concerti “monografici” onestamente non mi esalti, visto che sembra più che altro una “via di uscita” elegante per gruppi che da un po’ hanno esaurito la propria vena creativa, è impossibile non lasciarsi coinvolgere da un concerto del genere. Già dalle primissime note di “Holes” è chiaro quanto Jonathan Donahue sia in perfetta forma, e l’intera band sia in stato di grazia. Lo spettacolo è un viaggio onirico, tra sfumature psichedeliche e arrangiamenti barocchi, in puro stile Mercury Rev. La scaletta è pari-pari la tracklist del disco del ‘98, più una divertita cover di “Solsbury Hill” di Peter Gabriel e il gran finale affidato alla spettacolare “The Dark Is Rising” (da “All Is Dream”). Una lezione di stile.
Decido di restare in tema “tesori degli anni ’90”, e vado a farmi un giro sul palco ATP, dov’è di scena Dean Wareham alle prese con il repertorio dei suoi Galaxie 500. Trattasi di evidente “operazione-nostalgia”, ovviamente. Ma la musica è emozione. E se ci sono migliaia di persone con gli occhi lucidi quando il nostro canta piccole grandi gemme come “Temperature’s Rising”, “Tugboat” o “Strange”, significa che ha vinto lui.
Come sempre m’è capitato in Spagna, c’è la folla delle grandi occasioni per i Mogwai. Come prevedibile, sono di pochissime parole (a parte le dovute congratulazioni al pubblico di casa per la Champions League appena conquistata): i ragazzi di Glasgow preferiscono far parlare le loro composizioni. Attaccano con la sognante “White Noise” per poi assestare il primo colpo con la potentissima “Rano Pano” (tra gli episodi più brillanti del nuovo album). Fanno dondolare il pubblico con “Hunted By A Freak”, lo travolgono col muro di distorsioni di “Mogwai “Fear Satan”.
Uno show di mestiere, godibilissimo e come sempre basato su di una maniacale cura del suono. Ma la scaletta mi lascia a dir poco perplesso. Giustissimo dare molto spazio ai brani del nuovo “Hardcore Will Never Die, But You Will” (anche se “Mexican Grand Prix”, rispetto alla versione su disco è venuta fuori davvero bruttina), ma la decisione di snobbare in toto dischi come “Come On Die Young” e “Rock Action”, onestamente non l’ho capita.
Così come francamente non capisco perché gli Animal Collective, quando invitati a suonare al Primavera Sound, puntualmente decidono di tirar fuori il loro lato più freak e drogato. Incuranti del fatto di trovarsi sul main stage, davanti a una quantità di fans che probabilmente avrebbe gradito uno show più “istituzionale”, decidono di “testare” dei brani nuovi, e di ridurre a brandelli una manciata di canzoni del loro repertorio. Il loro live è un blob allucinante di tribalismi psichedelici ed elettronica free-form.
Sarà perché all’improvviso mi sento nelle gambe e nella testa la stanchezza accumulata nei tre giorni di festival, ma li trovo semplicemente irritanti. Abbandono il parco del Forum e mi avvio verso la metropolitana (che di sabato nella capitale Catalana è aperta tutta la notte). Mi ritrovo schiacciato in un vagone pieno all’inverosimile, tra personaggi ubriachi fradici reduci dai festeggiamenti per la vittoria del Barça, una delle tante giovani “indignadas” che hanno pacificamente invaso il festival con la scritta sul braccio “Revolucion es evolucion”, e due ragazzi che – incuranti dell’essere schiacciati come sardine – avevano ancora la forza di tirar fuori il programma del festival per raccontarsi i concerti visti e rammaricarsi di quelli che, per forza di cose, si era stati costretti a perdere. Buona notte, Barcelona. Alla prossima Primavera.
Autore: Daniele Lama
www.primaverasound.com