La notte su Napoli è gelata pure se non è fonda. E’ nitida pure se non è chiara. E i colori di Castel Sant’Elmo sopra la città sono quelli che solo la Disney dei primi tempi ti restituisce in certe VHS. Appena passi l’arco d’entrata già dimentichi di aver parlato tre secondi prima con il parcheggiatore intirizzito che ti ha detto “tutt’appost’, ‘a machina sta bbuon.” L’arco ti trasforma in un personaggio delle favole, un cavaliere dai colori psichedelici che entra nel castello di pietra massiccia. L’eco dei tacchi delle ragazze in fila sostituisce quello dei cavalli che avrebbero percorso la scalinata ampia, se tutto questo davvero fosse stato un sogno.
La sesta edizione del Kaleidoscope non poteva scegliere uno scenario migliore: nel cuore della città e sulla città al tempo stesso, il festival di musica elettronica del golfo ha sottoscritto ancora una volta il forte legame che vige tra Napoli e l’arte contemporanea.
“Com’è la situazione?”-dice all’ingresso una dipendente del museo di Castel Sant’Elmo-“Hanno iniziato a scatenarsi?”
No.
La risposta è no.
Questo perché la rovina della musica elettronica è la scarsa informazione, che la qualifica come musica da sfascio danzereccio e impasticcato.
Kaleidoscope è un festival che riporta l’elettronica nell’ambito della sperimentazione e dell’arte: i musicisti si esibiscono nella sala dell’auditorium, dall’acustica impeccabile. Chi ascolta, seduto, è pervaso dalla musica e dai colori, i giochi di luce, gli ambienti, che rendono il tutto molto più vicino ad una performance totale che ad un rave.
Nel programma degli artisti della serata del 28, sofisticati nomi stranieri come Gudrun Gut (pioniere degli Einstürzende Neubauten) e Lillevan (ex Rechenzentrum) si affiancano a quelli della realtà campana che non impallidiscono affatto; prima Climnoizer con il sua elettronica destrutturata e poi nella sala contigua all’auditorium Melke e Fuksia, ex chitarrista degli El-Ghor, hanno anticipato con il loro progetti elettronici la performance dell’headliner: il silenzio, i colori, le immagini in movimento, il sottile noise che si insinuava, lentamente tra le fessure del luogo, ha trasformato tutto in una grande installazione. Al main stage, intanto, allestiscono un pianoforte. Si tratta della porta di ingresso al mondo incantato di Hauschka, il pianista di Dusseldorf in grado di ricreare i suoni dell’elettronica senza alcun supporto elettronico. il paradosso postmoderno della musica sperimentale. Osare i limiti, varcarli, tornare dietro alle radici. Fra le corde del piano si incastrano collane, perline scintillanti, piccoli vibratori di metallo, palline da ping pong che si riflettono sulla coda nera dello strumento classico per eccellenza, trasformato in una piattaforma di sogno. Un solo artista che si moltiplica all’infinito e diventa l’eco di se stesso. Il pubblico del castello ascolta i silenzio, rapito.
Ma tra un brano e l’altro esulta, applaude forte, che l’aria si riscalda. Alla fine del concerto il pianista si china sul pianoforte a coda: libera gli oggetti imprigionati tra le corde. Li raccoglie in un piccolo sacco. Qualcuno lo affida ad una mano tesa. Un piccolo folletto del nord, che si è perso nei vicoli di Napoli, è stato fatto re. Gli hanno regalato un castello, per un mucchietto piccolo di vita, quanta ne entra in un guscio di noce. E Napoli brilla.
Il secondo giorno ha mantenuto la magia dell’esordio e si è distinto dal primo per un certo senso di sorpresa che ha portato con se’. Nel castello niente è quello che sembra. Niente resta quello che è stato. L’elettro-chic del pianista magico era solo uno degli aspetti che il Kaleidoscope ha voluto mostrare, perché il 29 dicembre la psichedelica sintetica, la distorsione, il groove sono stati gli elementi attorno a cui è andata intrecciandosi la notte. Una bellissima prova per il progetto del promettente duo napoletano , che debuttano a Sant’Elmo e lo fanno come chi, a suonare nei castelli, oramai c’ha fatto l’abitudine. Scopro poi che si tratta solo della loro seconda data. In assoluto. E allora penso che se lo potevano permettere di strafare, con quel nome doppio. io ce lo avrei messo pure triplo. Perché è il solo modo per restare senza fiato, esattamente come durante la loro esibizione: Inspiro. New York. New York. New York. Espiro. Due chitarre funk-rock a fare le primedonne su un tappeto di suoni elettronici da laptop, rumore distorto e motivi che ti restano in testa, anche dopo, sulla strada del ritorno. Una rivelazione che sa davvero di profezia brand new. Ce li vedremo crescere in casa. Guai (!) a fare finta di niente.
Sul main stage ci pensano gli italo-tedeschi Dakota Days a riscaldare gli animi: Lippok dei Tarwater e tre musicisti impeccabili della scena alt indie internazionale (con un passato nei Blonde Redhead per esempio), aviluppano con il loro posto rock elettronico e sognante i primi avventori che con gusto hanno sfidato le insane abitudini del pubblico troppo abituato ad arrivare agli show sempre dopo le undici di sera.
I veri cultori dell’elettronica però aspettavano Oval.
“Ua, ci sta Oval!” aveva detto un mio amico, creandomi un’aspettativa troppo arrogante, come se si fosse trattato del Bono Vox dell’elettronica. Ora non so se la colpa è stata delle comodissime poltrone dell’Auditorium del maniero, ma il progetto tedesco re della glitch music (mi spiegavano poi che si tratta della musica fatta con i suoni ricavati da strumenti elettronici “danneggiati”- vedi anche: l’elettronica spiegata a mio fratello minore) mi provocò uno strano assopimento. Tant’è che forse non sono in grado di dire effettivamente come sia andata la performance. O forse lo sarei fin troppo. Ma comunque.
Nome est omen. E invece: nessun assopimento giammai per l’esibizione conclusiva di Bomb the Bass, durante la quale l’Auditorium è stato letteralmente scavalcato ed invaso nelle prime linee. Si ballava tra le sedie, rapiti dai colori delle luci e dei video che accompagnavano una performance di elettronica votata al delirio. Tim Simenon, del resto, è un veterano della musica elettronica di un certo tipo: dagli anni ottanta ad oggi non ha fatto altro che salire e scendere dalle console dei più celebri club londinesi, remixando pezzi hip hop e campionando suoni dei più celebri pezzi funk del passato. Dalle due console il duo di Simenon e socio lancia anatemi e trasforma un piccolo pezzo di Napoli in un luogo senza tempo. Oltre il postmoderno. Dove passato e presente si incrociano.
Nasce il futuro. Alle spalle dei dj le immagini di Tron Legacy trasformano il pubblico nel protagonista di un videogame. Poi si fa tardi. I saluti. Le luci. Ma c’è ancora chi si chiede se è davvero finita. Quando ci toccherà mai attraversare le segrete. I mostro finale. La principessa da salvare.
Kaleidoscope Experience.
Autore: Olga Campofreda
www.myspace.com/festivalkaleidoscope