Pubblico da grandi occasioni stasera all’INIT, nonostante sia domenica (del resto siamo a Roma, mica a New York) per una delle bands più amate ma anche odiate del metal tutto: i Cathedral.
Molti vengono dal sud, ma non c’è solo pubblico metal, visto il sottobosco umano dismorfico e lombrosiano che affolla la sala che – se non fosse per i suoi accenti terrigni – potremmo pensare esser stato portato da Lee Dorrian in persona per tirar su il suo grottesco teatrino, a mò di ‘freak show’ dell’epopea metallica.
L’apparizione di Gates of Slumber annulla le mie elucubrazioni fisiognomiche e mi riporta alla realtà: il power-trio (scuderia Rise Above dello stesso Dorrian) proveniente da Indianapolis, palesa degli orientamenti ‘estetici’ che propendono verso un ideale abbastanza semplice da riassumere in un singolo riferimento: ‘Conan il Barbaro’.
Le copertine dei loro dischi evocano un immaginario epico e guerresco in puro stile Manowar, ma saremmo ingiusti e forse anche offensivi nei confronti dei nostri a paragonarli ai succitati ‘power-poseur’ poichè i Gates of Slumber non si presentano con ridicole mutande di pelouche (anche perchè di pelouche ne son già pieni sulla faccia e sulle teste): tre moderni (si fa per dire) Conan sovrappeso a triturare sano, onesto, pulito e potente heavy metal, lontano dalle pacchianate di certo power.
Essi sono la versione contemporanea del più roccioso epic-metal che fu e cioè quello di Cirith Ungol e Manilla Road, ecco perchè si parla sovente di doom per i Gates of Slumber: in quella porzione di ‘hard & heavy’ classico che partendo dai nomi citati arriva alla N.W.O.B.H.M., la componente doom è compresa, ne è parte ed in questo caso anche esaltata da una vocalità meno querula rispetto ad un Rob Halford (Judas Priest) o ad un King Diamond (Mercyful Fate).
Bella prova sentita e appassionata ed apprezzatissimi i brani tratti dall’ultimo ‘Hymns of Blood and Thunder’.
Terminato il loro set, i Doomraiser si riprendono i piatti che avevano prestato ai fratelli americani e nell’aria alcoolica e fumosa dell’INIT (e basta con il fumo artificiale, è roba del secolo scorso) ci posizioniamo nelle prime file per i Cathedral.
I Cathedral hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del metal dell’ultimo ventennio: hanno traghettato il verbo doom dagli anni ’80 (quando esso era ancorato invischiato nelle oscure partiture di Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus e Candlemass) ad oggi.
Precedentemente Lee Dorrian è stato la bestiale voce della prima incarnazione dei Napalm Death, il gruppo portavoce di una delle rivoluzioni più importanti della musica estrema: il ‘grindcore’. Con lo sviluppo di quest’ultimo c’è stato quello simultaneo della scena ‘death’ e poichè gli estremi si attraggono, i due virus si sono fusi per dar vita ad una nuova e letale creatura presto però ripiegata su sè stessa.
L’estroso e bizzarro Mr. Dorrian per evitare l’appiattimento inevitabile che certe soluzioni avrebbero portato decide di lasciare formando, per opposto, una delle formazioni più lente che all’epoca esistevano nel metal: i Cathedral.
Rifuggire da sterili riproposizioni di uno stile ormai diventato scuola, basato sulla velocità e sulla violenza ipercinetica, deve esser sembrata l’unica scelta possibile per il nostro che, raggiunto uno dei possibili limiti dell’inudito e dell’inaudito in musica, ha guardato indietro, al passato, prendendo uno stile già in antitesi a quanto finora fatto, lento per eccellenza, il ‘doom’, e lo ha rallentato ancor di più.
Il risultato è quella perla nera di tristezza e dolore chiamata “Forest Of Equilibrium” e subito fiorisce una scena di inconsolabili romantici depressi a voler consolidare in forme gotiche quello stile (My Dying Bride, primi Paradise Lost, Anathema e Katatonia).
Lee Dorrian si ritrova ancora una volta, suo malgrado, ingabbiato ed ecco che la sua mente labirintica comincia a partorire tutta una serie di albums che renderanno lo stile Cathedral unico ed inimitabile, crogiuolo di fantasie dove il doom delle origini flirta con l’heavy metal e l’ hard rock più brioso, il progressive si interseca in strutture multicolori dove tutto è possibile, perfino l’aggressività degli esordi.
L’ultimo album, the ‘Guessing Game’, si rivelerà un altro grande album del 2010 e che ha bisogno di tempo per essere compreso, poichè all’inizio potrebbe anche arrecare punte di fastidio dovute alla prorompente personalità del leader. Un quadro di Hyeronimus Bosch è un ottimo paragone: a tutti piace ma a tutti inquieta, per il suo simbolismo eccessivo ed ossessivamente morboso, ma che lascia avvinti nell’insieme.
La serata dei Cathedral si inaugura proprio così, con ‘The Guessing Game’ intro di una straniante bellezza barocca, mentre i cinque salgono sul palco.
Il primo è quel proletario (ex-roadie, volto da neo-realismo inglese alla Loach e chitarrista più ingiustamente sottovalutato nel metal) di Garry Jennings, con una t-shirt dei Witchcraft General, poi l’efebico bassista Leo Smee con quella degli Angel Witch, naturalmente Brian Dixon alle pelli (la ‘cattedrale’ ha una struttura molto stabile) ed infine ‘the master of freaks’, Mr. Dorrian, con una stretchy violetto e mezzo kg. di fibbia che rappresenta un formicone gigante.
La cadenzata filastrocca di ‘Funeral of Dreams’ con il coro del pubblico è un’ottima ouverture, che dà modo a tutta la carica istrionica di Dorrian di palesarsi fin da subito ed ancor di più nella successiva ‘Enter the Worms’ in cui il microfono è uno ‘strumento di spettacolo’ usato anche come corda dell’impiccato o come legaccio per la bocca, deturpando il suo volto in un espressionismo medioevale la cui ironia nulla toglie al suo significato didascalico che accompagna i testi, a volte più profondi di quanto possano sembrare ad un occhio esterno.
Ironia ancor più manifesta quando durante l’esecuzione di ‘Night of Seagulls’ dalla porticina laterale al palco esce Karl Simon, corpulento omaccione leader dei ‘Gates of Slumber’ che comincia a marciare sul palco in movenze zombiesche, fino a raggiungere ed importunare Jennings che non riesce a non ridere e poi a tentare uno strangolamento di Lee Dorrian alle spalle che se ne avvede in tempo e lo manda fisicamente a quel paese, in un’atmosfera di festa, fratellanza ed esoterismo da vineria che solo il doom può restituire.
I momenti più attesi sono stati quelli di pure-doom come ‘Cosmic Funeral’ con la sua conversazione tra chitarra e basso wha-wha ed ‘Ebony Tears’, riferimento per tutte le ‘funeral bands’ di oggi, attesa dai fan della prima ora che non si son astenuti dal fare il coro sul riff per tutta la durata del brano, ma anche gli episodi più aggressivi (‘Casket Chasers’) e ‘stoner’ (‘Ghost Galleon’) in cui gli headbangers più invasati (e qualcuno pure un pò fastidioso) delle prime file accennavano a pogare.
Il finale non poteva non essere l’hard rock stregonesco e sabbathiano di ‘Hopkins’, cavallo di battaglia della band che fa battere tutti i piedini e alzare tante corna al cielo più di un allevamento di bufale dell’agro pontino.
Il tutto è stato all’altezza delle aspettative e i Cathedral si configurano come una band che – nonostante i suoi venti anni di storia – ha ancora qualcosa da dire ed è ancora in evoluzione, animata da una costante curiosità e voglia di sperimentare, esemplare dunque per tante bands molto più giovani e nate già ‘vecchie’, soprattutto in un genere costantemente criticato per la sua presunta attitudine ‘conservatrice’: invito dunque tutta questa ‘critica benpensante’ a rifletterci sopra.
Autore: A.Giulio Magliulo
www.cathedralcoven.com – www.myspace.com/cathedral