Lichens – l’uomo nero sul palco – ha una faccia conosciuta, mi ricorda qualcuno, ma non so proprio in quale cassetto della memoria pescare. Baffi e barba così, del resto, danno la fisionomia del classico ‘sufi’ che puoi aver visto su qualsiasi sussidiario o enciclopedia fin da bambino.
Invece poi ho scoperto che quello lì lo ho proprio visto su un palco suonare: è Robert Lowe dei 90 Day Men, bellissima formazione tra le tante di quel calderone ‘post-rock’, originali per una tensione quasi ‘prog’ a differenza di tanti meccanici e chirurghi dell’epoca. Ora invece, con lo pseudonimo Lichens, è ben lontano da quei lidi; oggi il nostro è artefice di un ambient molto particolare, composta da strati e strati di drones, cinguettii di uccelli e voce effettata a tonalità altissime, quasi impossibili, che manda in loop e rende indistinguibile nell’insieme sonoro. Una lunga composizione unica che esegue in uno stato di trance, roteando gli occhi al cielo ed allargando la bocca per poter emettere i suoi (ultra)suoni, conferendo al suo volto le sembianze di una maschera grottesca. Nonostante quelle smorfie involontarie mi facciano ridere come un bambino un pò stupido, non posso non apprezzare la musica adattissima ad una ronfata pomeridiana sognando la natura.
Cambio di scena ed arrivano coloro per i quali siamo lì in trepidante attesa.
Gli Om oggi rappresentano la vetta ma anche l’unica valida realtà rimasta del genere ‘stoner’. Quanto dico potrebbe essere certamente dettato dal mio gusto personale, ma se David Tibet gli ha lasciato condividere uno split con i suoi Current 93 e se lo stesso han fatto i Six Organs of Admittance, capirete allora che gli ‘Stati Generali’ della musica ‘altra’ son tutti in questa sacra Trimurti. Con l’ultimo album ‘God is Good’ poi hanno raggiunto un livello di credibilità diverso se vogliamo, e non per il cambio di batterista (dallo storico Chris Hakius a Emil Amos dei Grails) che tanto riempie le fantasie onaniste dei webzinari dummies (al di là di considerazioni tecniche, per un batterista suonare sul tappeto di basso di Cisneros deve essere come per un pittore una tela bianca: può fare tutto quello che vuole). La differenza è che nelle composizioni tutte uguali degli Om, spesso indistinguibili, questa volta ci sono percussioni, flauti e sitar (veri o finti che siano!). Ed è proprio Rob Lowe che li suona (chitarra come sitar, un piccolo synth per altri suoni evocativi, controcanto da padre del deserto e tamburelli vari che percuote come cilicio sulle palle nei momenti più estatici): ecco perchè è ancora qui sul palco! La sostanza non cambia, sempre di rutilante doom mediorientale si tratta, sempre del concetto dilatato di ‘Set the Control for the Heart of the Sun’ dei Pink Floyd stiamo parlando, solo che è molto meglio messo a fuoco e godibile da un più ampio target ora che l’odore sulfureo del sabbath si va disperdendo a favore di aromatiche essenze desertiche.
Eppure l’impronta degli Sleep è sempre lì, c’è poco da fare, buon sangue non mente. Forse è impressa nelle nostre sinapsi ma ad ogni intro di basso del buon Cisneros quel suono slabbrato e cavernoso, molti toni sotto, è sempre una nuova ‘Dragonaut’ che arriva. Cisneros canta come un muezzin (evidente assai in ‘Thebes’) e le sue dita picchiano e scivolano sul basso che a volte sembra non lo tocchi neanche. Emil Amos non picchia mai troppo forte sulle pelli ma rulla e fiorisce di continuo (il volume della batteria è però un pò troppo alto rispetto al basso). Tutto il live è una lunga divagazione tra suggestioni e paesaggi che scorrono come in un film in cui voi siete dei viaggiatori in cerca della fede (una qualsiasi) o di qualche forma di spiritualismo. Se le copertine dei loro lavori (bellissima l’ultima in puro stile bizantino) lasciano intendere un forte legame con l’estetica cristiana, è altrettanto vero che le musiche sembrano più legate ad un mondo religioso altro, una ‘Palestina della mente’ dove il mondo musulmano e quello copto convivono in pace.
Ad un livello letterario invece i testi non nascondono una visione, una sensibilità descrittiva e narrativa più induista. E se è tipica della religione induista la concezione che l’origine dell’universo sia nel suono primordiale dell”Om’, è singolare notare l’analogia con il cristianissimo ‘In principio era il Verbo’. La parola quindi. O almeno un suono. Musica e rumore dunque, racchiusi in un cerchio che con il loro nome e le loro immagini sembra chiudersi. Forse questi acid-freaks non hanno fatto queste considerazioni teologiche per le loro scelte artistiche, ma è importante ribadire che le tematiche misteriosofiche che emergono dai loro testi non intaccano minimamente il concentrato di tensione e potenza implosiva della loro musica che in questo è figliastra dello sludge dei Melvins, a differenza per esempio dei Current 93 in cui quella componente invece prevale sull’aspetto musicale; se l’oscuro sir Tibet sembra proprio intenzionato a voler scrivere qualche nuova pagina nella storia dell’eresia (cristiana), gli Om restano ad un livello più superficiale, creando un culto ad uso e consumo della suggestione, della fantasia e della creatività, restando nel puro dominio musicale. Ed in questo ricordano proprio tanto i Black Sabbath e i Pink Floyd. Ma sono californiani e la loro visione è influenzata anche dai grandi spazi aperti sul deserto fatti di cieli bassi, sole rovente e tanta droga. Om! Om! Om!
Autore: A.Giulio Magliulo
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