Tortoise – Circolo degli Artisti, Roma 25/11/2009
Tanto vale confessarlo subito: i Tortoise li avevamo abbandonati quasi subito dopo il disco capolavoro TNT, ché troppo perfetto era quel disco per poter rimanere stupiti ancora una volta dai medesimi. All’epoca quella era stata davvero la musica che ci aveva traghettato verso la maturità degli ascolti (eccoci qui, siamo davvero diventati grandi: quel viaggio attraverso tutta l’Italia per il nostro primo festival accompagnati da quelle “canzoni” così strane ce lo ricordiamo ancora), quello era un disco dove convivevano elettronica, fusion, rock, progressive, indie, insomma, di tutto un po’.
Un suono che andava oltre il rock e che appunto proprio per questo venne, e viene, definito post-rock, alcuni parlarono, e parlano, anche di neo-prog e non proprio del tutto a torto, come si vedrà in seguito. Quel disco, con la sua copertina così naif, funzionò davvero da spartiacque (solo per noi?), sia per un certo tipo di musica, che per gli stessi Tortoise: cioè, avrebbero mai potuto far di meglio?
Non conosciamo benissimo i dischi successivi della Tartaruga di Chicago eppure, avvertendo per loro una sorta di caduta nel dimenticatoio, non sembra che i Tortoise, tra post-punk e nu-rave vario, siano rimasti propriamente sulla cresta dell’onda (in effetti, senza contare il disco insieme a Bonnie “Prince” Billy mancavano da circa cinque anni). Il disco successivo al capolavoro dinamitardo lo chiamarono Standards, come a voler auto-concedersi una sorta di classicità, lo sentimmo ma non ci provocò lo stesso sconvolgimento del disco con la copertina a righe. Allora lì vedemmo (già) live, in uno di quei festival dove il palco è enorme, e la distanza emotiva troppa. Ovviamente gran musicisti, sì, ma quella serata di fine settembre fu anche piuttosto fredda.
Ascolti distratti (mea culpa) degli album dopo appunto (ci) confermarono che il gruppo s’era un po’ perso per strada (ma cos’è questo… uhm… hard rock?).
E allora perché tornare a rivederli dal vivo?
Be’, detto chiaramente: non ci si aspettava che questo nuovo Tortoise, Beacons Of Ancestorship, fosse così dannatamente bello. Echi e riverberi dell’abbagliante disco bianco che fu addirittura: davvero, certi suoni sembrano, anzi sono, proprio quelli.
E così eccoci qui, tornati sotto al palco (dove si intravede anche qualche quarantenne, il che è piuttosto confortante: esiste ancora qualche vero appassionato!), per vederla ancora una volta, la nostra massiccia tartaruga americana.
La doppia batteria montata sul palco è una dichiarazione di intenti, e certo non è un caso che le due batterie della nostra macchina fotografica decidano di fare i capricci proprio oggi: questa è musica da godersi senza distrazioni.
La dichiarazione che (ci) fanno i Tortoise è questa: la nostra musica è ritmo, groove (ma c’è groove e groove, attenzione), “noi siamo/facciamo batteria”: compatti, lucidi, potenti. Non si ispireranno alla tartaruga così per caso, no?
Certo poi ci sono la marimba, lo xilofono, le tastiere, la chitarra, il basso, ma tutto questo sembra contorno (ma che contorno, cacchiarola!), quello che risalta definitivamente all’orecchio è soprattutto l’incredibile ritmo in cui riescono a portarti questi cinque gran musicisti americani (i cui tatuaggi e il continuo passare da uno strumento all’altro la dicono lunga su quanto tempo è che stanno nell’ambiente musicale, no?).
Prima si parlava di neo-prog, e non a caso, infatti la prima impressione, dopo qualche pezzo, è proprio quella: una sorta di ritorno agli anni ’70 dove la fanno da padrone ritmi complessi e precisi, e laghi di tastiere/synth reiterati ed evocativi. Poi certo si ritorna in anni più recenti e tra i pezzi nuovi si inseriscono, come volevasi dimostrare, anche pezzi dal disco di cui si è (stra)parlato fino adesso, e la musica diventa (anche) una sorta di fusion, ovviamente nel senso buono del termine. Forse si sente meno “elettronica”, ma giusto perché la dichiarazione di intenti dei Tortoise è quella di cui sopra: noi abbiamo e suoniamo strumenti veri, e passiamo dall’uno all’altro senza alcun problema. Le magliette sudate alla fine del concerto stanno lì a dimostrarlo.
Ma davvero tra accelerate rock, scomposizioni fusion, atmosfere prog, strutture indie, e ritmi elettronici, in un frenetico e sorridente (questi qui si divertono veramente quando suonano, altro che ventenni depressi!) crescendo appassionato che conosce pausa solo per qualche inconveniente tecnico, non si saprebbe proprio come precisamente definirla, alfine, questa incredibile musica di cui abbiamo goduto in quest’ora e mezza… che dite, la chiamiamo solo Musica e basta?
Tortoise + Tom Violence – Viper, Firenze, 26/11/09
Apertura del Viper prevista per le 21,30; arrivo lì davanti alle 21,45, il tempo di parcheggiare e fare un po’ di fila alla cassa per ritirare il mio accredito e la prova dei Tom Violence è praticamente agli sgoccioli. Peccato, perché il loro primo lavoro omonimo mi era piaciuto (il secondo “Borderelinelovers” uscito quest’anno non ho ancora avuto modo di ascoltarlo) e perché, nonostante la band sia di Firenze, questa era la prima occasione in cui riuscivo a vederla all’opera dal vivo… tra l’altro i due pezzi finali assaporati stasera mi sono sembrati convincenti, per quanto le impennate di feedback portino impresso il solito marchio Mogwai. E peccato pure che, bruciata così presto l’esibizione del gruppo di supporto, l’attesa per i Tortoise sia stata piuttosto lunga.
Quanti rimproverano alla band di Chicago di suonare su disco un po’ “algida”, o “autocompiaciuta”, o nel tempo sempre più “manieristica”, non credo che sarebbero disposti a cambiare idea dopo averla vista in concerto: certo, qui ci sono i musicisti in carne ed ossa ed i pezzi acquistano spunti e sfumature inediti, ma la capacità dei Tortoise di sintetizzare tra loro elementi diversi si concretizza sempre in geometrie perfettamente definite e tutto dà l’impressione di muoversi in un ingranaggio pilotato da meccaniche estremamente razionali.
L’inarrestabile serie dei cambi di interpreti dietro i vari strumenti (ora due batteristi, ora due vibrafonisti, John Herndon che suona di tutto un po’…) rappresenta il vero aspetto scenografico del concerto, visto che un John McEntire molto concentrato (eccelsa la sua prova alla batteria!), ed altrettanto rapido nel dileguarsi dietro le quinte, non concede nulla al dialogo diretto col pubblico, affidato esclusivamente ai sorrisi di Dan Bitney, ad un sincero quanto beffardo “Grazie, ho le lacrime agli occhi” pronunciato prima dei bis da Doug McCombs e ad un altro “Thank you” scandito alla fine da Jeff Parker.
La girandola ritmica azionata dalla fusion-jazz di “Prepare your coffin’”, da scampoli prog-rock, dal funk plastico e fibrillante al tempo stesso di “Eros”, da sbuffi di lounge-exotica e da sinusoidi dub soddisfa i seguaci della Tartaruga, convenuti in buon numero.
Prova tecnicamente impeccabile, pure “troppo impeccabile”, che ha avuto il potere di entusiasmarmi solo ad ondate: a metà serata un paio di sbadigli interlocutori confesso di essermeli concessi, poi per fortuna proiettato nuovamente in clima-concerto grazie alle scosse electro di “High class slim came floatin’”.
Autore: Lucio Carbonelli (Roma)/Guido Gambacorta (Firenze)
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