“Durante i loro concerti i Black Lips si pisciano in bocca”. Questo mi era stato promesso e infondo un po’ lo volevo. Una ragione in più per recarsi il giorno prima del concerto sul sito del Blackout per la prenotazione del biglietto.
Sold out, anche questo mi aspettavo: i Black Lips che atterrano in Capitale a portare musica, follia e urina. Tutto parla di un venerdì sera che non lascia speranza di vedere un sabato lucido, con tutte le costole a posto. I Grannies attaccano a suonare e qualcuno crede si tratti già dei Black Lips, solo col Nongiovane di Mtv al posto del cantante di routine.
No. È il gruppo spalla.
Ah. Ma infatti notavo una certa mancanza di verve…
Balle. I Grannies, questo glie lo concediamo, la verve ce l’hanno avuta. Fosse stata tutta nella canotta bianca del chitarrista, ma insomma, è il risultato che conta. La band romana a cui piacciono i sixties ma a suonare le solite ballate della pace si erano rotti già ai tempi dell’oratorio: per cui surf, per cui “rock and roll rootsy”, tutte apposizioni che su due piedi wikipedia non te le spiega, ma che a quanto pare coi Black Lips c’entrano parecchio. Tranne il piscio, quello, è un marchio di fabbrica, come mangiare pipistrelli per Ozzy Osbourne o fare sesso coi cavalli per Cicciolina, ma questa è un’altra recensione.
I cattivi ragazzi di Atlanta salgono sul palco che è piuttosto tardi. Quasi ora delle streghe. Attaccano senza mezzi termini con Sea of Blasphemy, giusto per presentarsi, se qualcuno avesse avuto dei dubbi. E la scaletta è una studiata composizione che attraversa la loro discografia dal 2004 all’ultimo album, 200 Million Thousand, uscito lo scorso febbraio. In perfetto stile “greatest hits” i Black Lips hanno fatto ballare e pogare un pubblico che non vedeva l’ora di smettersi le camicine indie abbottonate fino all’ultima asola ed iniziare a sudare: primeggiavano potentissimi i riff del basso accompagnati da cori melodici che trovi solo certe volte in autobus, durante certe trasferte, o in curva, trasportati da un’acustica finalmente decente rispetto a quella della maggior parte dei locali de Roma. Katrina se la bruciano subito, ma il concerto è tutta un’ascesa che tocca Cold Hands a metà tragitto e Fairy Stories quasi sullo scioglimento della trama. L’epilogo è di quelli che balli e chiedi pietà, non tanto per fermarti, quanto per avere la forza di tenere testa alla band: è una sfida tra loro e il pubblico, a chi pompa di più. Su Buried Alive qualcuno lancia sul palco un rotolo di carta igienica: un segnale che la performance finale del piscio in bocca si sta avvicinando? Pare di no: al massimo Cole, il chitarrista coi baffi che sembra Joe Rivetto accenna una scivolata alla Guitar Hero.
Pare che si credano un sacco cattivi, questi Black Lips. In realtà sono il classico compagno di classe che va male in tutte le materie però fa divertire nell’ora di religione. Ian Saint Pè con quei suoi denti d’oro sorride e sembra uno che ha appena trovato una dentiera nel pacchetto di patatine.
La corsa volge al termine con Bad Kids (e chi se lo dice da solo non vale!). Qualche ragazza sale sul palco discolamente e viene ritirata giù senza sforzo. Poi Juvenile, tirata fino all’ultimo, e il concerto termina davvero con due stupende cover: “You Must Be a Witch” dei Lollipop Shoppe e “Wildman” dei Tamrons.
Sancisce la chiusura un bacio omosessuale tra i due chitarristi: quello che era stato prescelto come momento trasgressivo della serata, non ha scandalizzato abbastanza. Evidentemente nessuno gli aveva detto che due tipi inglesi questa cosa l’avevano già fatta nel 2003. Niente piscio in bocca, quindi. Forse non avevano bevuto abbastanza. La prossima volta gli offro una birra, e vediamo.
Autore: Olga Campofreda
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