Dopo tre anni, a distanza dal trionfale tour italiano di Playing the Angel, i Depeche sono tornati a Milano, questa volta nella sontuosa cornice del San Siro, per illustrare ai fan il nuovo album, Songs of the Universe.
La prima cosa che ha colpito tutti e certamente anche il pubblico di Roma che li ha visti suonare due giorni prima, è la grande forma complessiva di Dave Gahan, reduce da un’operazione non facile alla prostata. Eppure, Dave è il solito istrione sciamano sul palco, capace di ballare, muoversi sensualmente, attirare folle di sguardi femminili, e soprattutto capace di cantare con la stessa, magistrale voce di sempre.
Per il resto, la teatralità e la spettacolarità di un concerto dei Depeche Mode non si discute: i Depeche sono l’unico gruppo di elettromusic capace di trasformarsi dal vivo in una rock band in piena regola, e questo negli anni è diventato il marchio che li ha resi e li rende unici. In questo tour, poi, lo spettacolo è dato anche dall’accompagnamento visivo dei maxischermi, che non si limitano a riprendere il palco ma proiettano immagini, giochi di luce (come quelli bellissimi in Come Back), vere e proprie trame visive, spesso dotate di storia e significati propri rispetto alla canzone in corso.
Ma c’è da dire che nonostante l’inizio roboante con In chains, e soprattutto una splendida e potentissima Wrong sparata ad alto volume, complessivamente i pezzi nuovi non riescono del tutto a convincere. Ce la mettono tutta Dave Martin e Andrew, soprattutto variando tanto sonorità e ritmi dei pezzi da studio, come in Hole to Feed, dove le percussioni e i ritmi sono più voraci e coinvolgenti, o in Peace, che si appoggia a un bel commento visivo e a una base techno che non c’è nella versione originale, fino al coretto finale col pubblico, o la stessa bella Come Back.
Però sembra che questi pezzi restino nella soglia del concettuale e non catturino l’anima, come le vecchie invincibili melodie: Walking in my shoes, per esempio, sparata dopo le prime tre nuove songs, è a un altro livello, come pure It’s no Good. Mentre latitano un po’ Question of Time, e la bellissima Precious, eseguita qui in una versione forse troppo lenta.
La chicca del concerto non manca e qui è Fly on the Windscreen, in versione lobotomizzante. Eppure il senso del travolgente che accompagna spesso le esecuzioni dei Depeche dal vivo ancora non c’è, e non sarà Martin Gore a darlo con My Little Soul e nemmeno Home eseguite da solista col solo pianoforte da accompagnamento.
Qualcosa di più succede quando si attacca In Your Room, e soprattutto I Feel You, talmente potente da risultare caotica (il tecnico dei suoni e dei volumi durante il concerto sbaglia qualche passaggio qua e là soffocando nel rumore la voce di Dave). Poi, dopo Policy of Truth (dimenticabile) il solito classico: Enjoy the Silence seguita da Never Let Me Down. Impossibile non suonarle, ma anche è vero che ormai possono stancare il fan più fedele.
Dopo la pausa il bis è con Stripped, Master and Servant, Strangelove, e infine, una fantastica cattivissima versione di Personal Jesus davvero convincente. Si chiude con un duetto vocale tra Dave e Martin su Waiting for the Night, con il pubblico purtroppo distratto per coglierne la poesia e la delicatezza, come se il concerto fosse già finito.
Alla fine i 50.000 del Meazza vanno via soddisfatti (e come non esserlo?), anche se forse consapevoli di non aver visto né la miglior scaletta possibile né la migliore resa possibile per un gruppo che ha abituato il suo pubblico forse sin troppo bene dopo 25 anni di live gloriosi.
Autore: Francesco Postiglione