Parafrasando, con il dovuto rispetto, quello che John Landau disse a proposito di Springsteen più di trenta anni fa, il 28 marzo sul palcoscenico dell’Alcatraz di Milano chi c’era ha visto il futuro del rock, e il loro nome è Editors. E se è vero, come cantano in una delle loro più ispirate canzoni che è anche title track dell’ultimo album, che “una fine contiene un inizio”, la fine di questo tour sarà i quattro di Birmingham una bella esperienza con cui confrontarsi per ripartire con un nuovo progetto, nella consapevolezza che le speranze di molti fan e cultori sono tutte concentrate su di loro.
C’è poco da discutere: sul palco i quattro, e specie il cantante-anchorman-sciamano-saltimbanco Tom Smith, sono davvero un portento come non si vedeva da molto tempo: per essere agli inizi (appena il secondo album) Tom Smith richiama da vicino gli animali da palcoscenico più noti nella storia del rock, da Bono a Dave Gahan, da Chris Cornell a Eddie Vedder.
E il rock degli Editors è finalmente originale, dotato di uno stile proprio e inconfondibile: appartiene a quella scuola prolifica (forse l’unica attualmente) che ultimamente ha sfornato anche Interpol e Killers, ma se ne allontana poi per la resa live, che è decisamente superiore e sa superare le atmosfere pop di qualche canzone da studio per diventare vera e propria “carne per pogare” come infatti è capitato a metà pubblico dell’Alcatraz. Si comincia con Camera, poi subito An end has A Start, uno dei pezzi di battaglia, e poi senza sosta Blood, Bullets (singolo del precedente bellissimo album The Back Room) The Weight of The World, una fantastica Escape the Nest, poi ancora Lights e una tiratissima When Anger Shows. I quattro mescolano giustamente fra vecchio e nuovo, hanno modo di proporre anche un inedito del primo ep, che non sfigura affatto, e poi si esaltano (e il pubblico con loro) con la cover di Lullaby dei Cure, che la voce cupa e profonda di Smith (Ian Curtis, David Byrne, avete presente?) sa interpretare al meglio, e poi segue la parte micidiale: All Sparks, Munich (gli altri singoli dell’album del 2005) e il pubblico è già in delirio, poi una ballata dolce Push your Head Toward the Air, e poi, per concludere, Bones, e Fingers in the Factories tanto per demolire ciò che dell’Alcatraz è ancora in piedi.
Tom Smith si è sbattuto, è saltato su e dal pianoforte, ha ammiccato al pubblico, posato per le foto, scherzato con le prime file, inneggiato al pogare, e alla fine è sudatissimo, accompagnato sempre da Chris Urbanowicz alla chitarra, Russell Leetch al basso, Edward Lay alla batteria. Dove si fermerebbe qualunque comune mortale, non si fermano gli Editors: dopo pochi minuti arriva il bis “infernale”: the Racing Rats, un altro inedito presentato come una “old song” ma frizzante come nuova, e infine, ovviamente, Smokers outside The Hospital Doors, ben candidata a diventare l’inno di una nuova generazione rock.
I quattro lasciano un pubblico in estasi, stupito di quanto la resa sia andata ben oltre le aspettative. Se gli Editors non si bruceranno subito per il troppo successo, grazie soprattutto a questa forza dei loro live entreranno presto di diritto nella storia del rock del terzo millennio, e più che meritatamente. Non sono nemmeno ormai un talento da scoprire, ma una nuova, fantastica realtà per chi stava aspettando che il rock desse dopo il 2000 i suoi segnali di vita. A quanto pare hanno proprio ragione: ogni fine contiene un inizio.
Autore: Francesco Postiglione
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