D’accordo: un Robert Smith con oltre quarant’anni suonati, e un fisico non proprio più smilzo e atletico come agli esordi, con trucco e pettinatura ostinatamente dark può essere qualcosa di imbarazzante, e offre un colpo d’occhio da sicura reazione nostalgica. Ma quanto è più importante una sensazione come questa rispetto al provare le stesse vibrazioni emotive e sonore di 20 anni fa attraverso una esecuzione dei “classici” che non ha nulla da invidiare al periodo di maggior forma e fama delle quattro leggende viventi? Quanto è più importante l’aspetto fisico e la moda un po’ decaduta rispetto al fatto che Robert Smith ha la stessa incredibile, suadente, ipnotica, stregata voce che ascolti nelle incisioni degli album più famosi?
Il concerto eseguito a Milano è un’autentica perla: acustica superba (una volta tanto, plauso agli architetti del Palasharp) e regia di luci magistrale accompagnano, come necessario per un gruppo come i Cure, le esecuzioni della scaletta in maniera perfetta, sognante, dando agli spettatori l’illusione che per quasi tre ore siano catapultati in un altro mondo, forse quel “giardino sospeso” a cui i Cure prima maniera inneggiavano in uno dei loro album più famosi, quel Pornography che era il capitolo finale della loro saga dark.
Eppure proprio da Pornography i quattro (Smith, Gallup, Cooper, Thompson, in formazione ridotta ed essenziale, senza i solenni appoggi delle tastiere) attingeranno in fondo poco nel corso del concerto. Ma non c’è tempo per rimpianti e lamentele: si inizia con Plainsong e Prayers for the rain da Disintegration, e la concessione ai pezzi più nuovi, Alt End, From the Edge of the Deep green sea, e The end of the world, intermezzate da un mito come A Night like This, è breve: Lovesong, Pictures of you, Lullaby continuano a distillare note di Disintegration, a cui seguono poi le grandi track di Head on the door, come Kyoto song, Push, The baby Screams, (intervallate da pezzi di Kiss me Kiss me Kiss me come Just like Heaven,la rarissima e preziosa Catch, if Only tonight we could sleep e qualche altro pezzo più nuovo, tra cui brevi inserti del nuovo ancora inedito album, Please Project, A boy I never Knew, Wrong Number, Never Enough) ed alla fine saranno questi tre gli album giustamente più saccheggiati, trattandosi del loro lavoro migliore, probabilmente, anche se estraneo alla fase più squisitamente dark.
Ancora in sede di session principale i Cure hanno il tempo di regalare al pubblico una stupenda esecuzione di The Kiss, di quasi dieci minuti, con assolo iniziale ipnotico, e la darkissima One Hundred Years, per concludere poi la session con Disintegration.
Fin qui, già un concerto indimenticabile: non la solita greatest hits dal vivo a cui ci hanno abituato troppi gruppi dal repertorio datato, ma una session che pur concedendo ai fan la giusta emozione dei pezzi più importanti (ma non necessariamente più famosi, è il caso di Push, The Catch, o The Kiss appunto) con orgoglio guarda anche alla produzione più recente (Wish, un pizzico di Bloodflowers e qualcosa dall’ultimo pubblicato, The Cure, del 2004) trascurando del tutto album meno significativi come il deludente Wild Mood Swings, e The Top, mettendo in mostra il fatto che i Cure sono uno dei pochi gruppi con più di 20 anni di carriera a essere ancora significativamente produttivi.
Ma, come sempre accade, sono i bis a far deragliare il concerto verso il delirio: il primo è dedicato esclusivamente all’album Sixsteen Seconds, con At Night, M, Play for Today, e soprattutto una incredibile, mai doma A Forest, con i suoi allucinati e allucinanti again and again and again ripetuti fino al limite dell’umano.
Il secondo bis è per i grandi successi, le hit ormai immortali: the Lovecats, In between Days, Freak show, Closet o Me, Why can’t I be you. A questo punto, il concerto avrebbe potuto anche finire.
Ma i Cure sono ancora oggi unici, e quindi c’è un terzo bis (siamo ormai a due ore e quaranta di concerto) e arrivano i pezzi più vecchi, quelli degli esordi: Boys don’t cry, 10.15 Saturday Night, e Killing an Arab.
Alla fine, con un repertorio sterminato di belle canzoni da pescare in ben 15 album, qualcosa ovviamente è stato lasciato fuori, forse troppo da Pornography e Faith. Ma nessuno sarà potuto andar via insoddisfatto: i Cure hanno dimostrato di essere ancora grandi musicisti e non le cover di se stessi, un gruppo attivo e prolifico, meravigliosamente capace di dare sensazioni uniche, anche ai teenager accorsi in massa ad ascoltare un gruppo che è nato prima di loro, ma che evidentemente è l’unico, in fondo, a saper parlare ai loro cuori dark-punk spruzzati di melodia e dolcezza infinite. Perché questo in realtà sono stati e sono i Cure, e questo li rende unici nella storia del rock.
Scaletta:
Plainsong, Prayers For Rain, Alt.end, A Night Like This, The End Of The World, Lovesong, Pictures Of You, Lullaby, Catch, From The Edge Of The Deep Green Sea, Kyoto Song, Please Project, Push, Just Like Heaven, A Boy I Never Knew, If Only Tonight We Could Sleep, The Kiss, Us Or Them, Never Enough, Wrong Number, The Baby Screams, One Hundred Years, Disintegration
1° bis: At Night, M, Play For Today, A Forest
2° bis: The Lovecats, Friday I’m In Love, In Between Days, Freak Show, Close To Me, Why Can’t I Be You?
3° bis: Boys Don’t Cry, 10:15 Saturday Night, Killing An Arab.
Autore: Francesco Postiglione
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