Neppure quindici anni fa Evan Dando era l’indiscussa star della scena alternativa a stelle-e-strisce. Idolo generazionale, adorato dalle teenager di mezzo mondo, sempre sotto i riflettori e sulle copertine delle riviste patinate. Mentre i Lemonheads, la sua band, venivano considerati – assieme a Nirvana, Dinosaur Jr e Buffalo Tom – gli esponenti di punta della scena alternativa di quegli anni. Poi gli abusi, una vita sregolata, il successo di massa che sfugge sempre per un soffio e l’inevitabile scioglimento del gruppo, decretato nel 1997 al termine di un’apparizione al festival di Reading.
Dopodichè del nostro uomo perdono le tracce. Passerà parecchio tempo prima che il biondo chitarrista e songwriter torni ad essere nuovamente ispirato, superando anche un lungo periodo di depressione. Come nelle migliori favole a lieto fine, è l’amore a far ravvedere il buon Dando. Convola a nozze nel 2000 e, più o meno nello stesso periodo, inizia a collaborare con i Giant Sand. L’anno seguente torna sulle scene in solitario, grazie a un pregevole live semi-acustico: “Live At The Brattle Theater/Griffith Sunset”. E’ il preludio a “Baby I’m Bored” (2003), album di discreta fattura nonché primo lavoro ad essere intestato unicamente a suo nome. Quindi nel 2005 l’idea di riesumare la vecchia sigla e mettere in piedi una nuova line-up dei Lemonheads. Detto, fatto: in dodici mesi il terzetto realizza il nuovo omonimo album. Ed è proprio per promuovere “Lemonheads” che la band arriva in Italia.
Pur non essendo mai stato un fan della formazione bostoniana, l’idea di un concerto dei “nuovi” Lemonheads mi intriga parecchio. Soprattutto per la curiosità di vedere Evan Dando ora che non è più il protagonista delle cronache rosa e delle riviste di moda, e ormai neppure un’icona del rock alternativo. Mi interessa capire come è “invecchiato” e come è cambiata, se è cambiata, la sua musica.
Alle undici meno un quarto di un tranquillo giovedì di novembre, i nuovi Lemonheads salgono sul palco dell’Alpheus di Roma. Assieme a Dando, cappellino di lana in testa e addosso una maglietta vintage con l’effige di Rod Stewart (tanto kitsch da essere bella!), ci sono due pezzi da novanta del punk americano: Bill Stevenson (Descendents, Black Flag) alla batteria e il simpatico Karl Alvarez (Descendents) al basso. Un power-trio impeccabile. In poco più di un’ora il terzetto regala ai pochi fans presenti (neppure un centinaio) una manciata di brani vecchi e nuovi. Musicalmente parlando, il tempo sembra essersi fermato a dieci-dodici anni fa: melodia e distorsione a braccetto, pezzi veloci e accattivanti alternati a episodi più meditati: da “The Great Big No” e “Down About It” a “Hannah & Gabi”, passando per il ritmo inconfondibile di “Confetti”, la ballatona “It’s About Time”, fino alle nuove “No Backbone”, “Baby’s Home” e “Pittsburgh”, tratte dall’omonimo album del ritorno.
Ad essere cambiata, invece, è l’atmosfera. I Lemonheads non sono più la “next-big-thing” del rock alternativo americano, i pochi fans presenti apprezzano il concerto senza troppe manifestazioni d’affetto. A questo contribuisce anche l’atteggiamento di Evan Dando, quasi da “shoegazer”: non dice una parola, mette in fila i brani uno dietro all’altro come se avesse fretta di finire, guarda ossessivamente la set-list ai suoi piedi e non rivolge la parola al pubblico. Il concerto scivola via piacevole, ma senza alcun picco emotivo. Forse per questo Dando prova a rianimarlo alla fine: saluta col dito medio, se ne va… e dal retro del palco scaraventa una sedia verso gli astanti. Ma quasi nessuno se ne accorge…
Autore: Roberto Calabrò
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