L’esperienza è di quelle che segnano. Fredda serata di pioggia e pubblico delle grandi occasioni. Sunn O))) al Jail di Legnano, nella profonda provincia milanese. Ad aprire, gli Earth, gruppo storico attorno al cui culto la band di Stephen O’Malley e Greg Anderson ha costruito negli anni il proprio mito. Calda e passionale, la loro esibizione sortisce l’effetto di rallentare i battiti del cuore, di traghettare il folto pubblico fino alle nere sponde dei paesaggi sonori firmati Sunn O))). Un’estetica, quella della storica band di Olympia, fatta di ripetizioni, di un sound rigoroso, di lunghissime note di chitarra sporcate da pennellate country blues che si avvinghiano attorno a una struttura molto solida, un rock ’n’ blues antemico che si muove dentro le linee della forma canzone. Presto però arriva il momento dei Sunn O))). Immersi in una spessa coltre di fumo che lascia intravedere i contorni solo abbozzati delle loro sagome, O’Malley e Anderson salgono sul palco avvolti da lunghe tonache, con il cappuccio che finisce per celare quasi completamente i lineamenti del viso. Alle loro spalle, un muro di amplificatori, proprio quei Sunn da cui i due hanno mutuato il nome del progetto più rumoroso degli ultimi anni. Il loro show è stremante, è pura violenza. Semplicemente impressionante. Oltre un’ora di vibrante ossessione sonora, in cui i pezzi dell’ultimo “Black One”, disco che inaugura la serie “nera” e che completa definitivamente quel processo di sprofondamento nelle viscere del suono inaugurato con il primo “White One”, subiscono una profonda trasformazione, si dilatano strisciando dolorosamente verso l’infinito, si legano gli uni agli altri costituendo un temibile quanto meraviglioso continuum sonico, da lasciare senza fiato. Una trance, un’estasi, una lentissima discesa in un desolato e nerissimo paesaggio notturno. È un suono sciamanico, disarmante, opprimente. Fondamentalista. Nella dimensione live, i Sunn O))) si allontanano non poco da quel substrato black metal, da quella chiara matrice doom che sottintende molti dei pezzi incisi su disco. Il concetto stesso di drone, o “la Nota”, come ha precisato tempo fa Dylan Carlson, membro fondatore degli Earth, è portato all’eccesso, è dilatato, attraverso una smaliziata affezione per le frequenze più basse umanamente accessibili, in un immaginario senza tempo e senza spazio. Solo l’improvviso finale, lo spegnimento simultaneo degli amplificatori, l’inevitabile e liberatorio applauso del pubblico e l’ironia (volontaria?) delle successive pose caricaturizzanti da macchietta metallara ci salvano da un incubo nero che sembrava poter durare in eterno.
Autore: Marco Castrovinci
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