Finalmente a casa, diceva il manifesto, annunciando la data conclusiva del tour 2005, e forse Meg non pensava di doversi confrontare con la proverbiale ingratitudine di parenti e conterranei. Perché se per anni sei stata la voce di una delle band più “contro” dell’underground partenopeo, se dopo aver musicato Shakespeare in teatro e realizzato il tuo primo album solista con la tua label decidi di chiudere in bellezza nella tua città, naturale che ti aspetti di giocare in casa. Di trovare un pubblico più caloroso o almeno una complicità che in altri concerti non puoi permetterti. Purtroppo non è stato proprio così. Il pubblico del Duel:Beat era sì numeroso e non mancavano i fan più sinceri di miss Di Donna ma quanto a feeling…vedere alla voce: “non pervenuto”. Un vero peccato, perché Meg ce la mette davvero tutta sul palco, evitando abilmente di ripetere quanto già visto nella recente (e funestata) performance della notte bianca, stravolgendo generi e cliché musicali con l’aiuto di una band versatile e fuori dal comune (Alessandro Quintavalle al basso, Paolo Cucco alla batteria e Mario Conte alle tastiere e laptop). Giocando come sempre a spiazzare tutto e tutti, quelli che rimpiangono la cantante politically uncorrect e quelli che la liquidano frettolosamente come la Bjork di casa nostra. Ai primi propone una manciata di brani del suo passato “militante” in una veste aggressiva e tirata che non ha niente da invidiare alle versioni originali; si sottrae quindi alle insidie delle orchestrazioni più complesse del disco, “alla Matmos” – e al conseguente “effetto Gudmundsdòttir” – lavorando di sottrazione sul nuovo repertorio. “Audioricordi” e “Simbiosi” si vestono così di un minimalismo intenso e suggestivo, “Parole alate” sprigiona dal vivo una fisicità che non può lasciare indifferenti, così come i frequenti cambi di registro: dal latin di “Senza paura” al furore iconoclasta di “Sopravvivi”, alle incursioni jazzistiche di “Olio su tela”, mentre sullo schermo prendono forma le invenzioni visive di Mattia Casalegno (Kinotek).
Un paio di vecchie hit, ‘Sfumature’ e ‘Quello che’, si dilatano quanto basta per permettere alla voce pastosa di Meg di confermare quanto già sospettavamo: messo da parte il rap, la melodia ne guadagna non poco, e non ce ne vogliano Zulu e i vecchi fan.
Meg veste infine i panni (in tutti i sensi) di regina dell’indietronic, e dopo un veloce cambio d’abito (si lasciano apprezzare le scarpette rosse da strega dell’Est) tira fuori la cover electroclash di “Come as you are”, i Nirvana dati in pasto a Goldfrapp, la classica “Sweet dreams”, più Lennox che Manson, e un altro pugno di canzoni dei Posse (con una “SUB” che non perde un grammo dell’energia originaria). Se fossimo indiscreti segnaleremmo poi la presenza – con tanto di videocamera – del cantante di una nota band torinese, ma siccome non amiamo i pettegolezzi, e non siamo available for propaganda, non lo faremo. Alla fine, Meg torna sul palco incoraggiando sarcasticamente gli astanti a essere più partecipi. Il bis è, come si dice, breve ma intenso: “Invisible ink” si trasforma nella versione swingata della harrisoniana “While my guitar gently weeps”, “Comincia adesso” arriva troppo tardi a scuotere culi e coscienze di un pubblico svogliato e distratto, che forse non meritava un concerto così bello.
Autore: Rino Cammino
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