Senza dubbio un concerto di alto profilo, con tutti i ma e i però del caso. E con sostanziosi distinguo tra una performance e l’altra.
Sylvain Chaveau da solista ha incantato tutti, la sua esibizione ripartita tra piano solo e chitarra, seppur ostica, ha davvero affascinato. Tuttavia, mentre le composizioni al piano, gravemente mancanti del contrappunto elettronico proprio dei più riusciti lavori in studio ( “Le Livre Noire du Capitalisme”, su tutti), che è indispensabile cifra stilistica del proprio pianismo, appiattendosi troppo verso un semplicismo seriale à la Satie, senza tuttavia averne lo spessore costruttivo. Le tessiture di chitarra invece volano leggere; delay, loop, spazzole, archetto a confondere le acque, a tutto vantaggio dell’ atmosfera fluttuante, gassosa, che vi si sprigiona.
E’ stato possibile, con un po’ d’impegno, sentirsi per un attimo nella Düsseldorf di qualche anno addietro come spettatori di un esibizione di musica cusmatica.
Gli Angle si sono dimostrati un gruppo interessante, autori di una musica riconducibile ai canoni del post-rock, virato in chiave decisamente atmosferico, con la particolarità di una batteria dispari industriale, con tanto di lamiere ad integrare i piatti. Hanno dimostrato di possedere un suono molto cercato (non necessariamente ricercato) e riconoscibile, merito soprattutto di un uso intelligente della loop machine, specialmente nelle linee di basso, e di samplers che si integravano ottimamente alle parti “suonate” dal vivo. Peccato per un cantato troppo poco personale, timbro di quello del Geoff Farina dei Karate.
Gli Arca invece risultano deludenti. Post-rock, ma senza nerbo. Tolto il furore, tolto il contrasto emozionale tipico di questo linguaggio, rimane un lavoro di maniera, nel quale gli stridori forte/piano lento/veloce, pulito/sporco sono maledettamente già sentiti.
L’apporto di Chaveau alla chitarra “rumorosa” ed allo xilofono è comunque riconoscibile, oltre che un apprezzabile tentativo di dare una iniezione di creatività in un set in cui la cosa più incisiva rimane uno spezzone di Tarkovsky proiettato come backgroud visivo.
La partitura della serata in tre performance da trenta minuti circa ha avuto l’indubbio vantaggio di renderla più leggera e fruibile agli spettatori, che potevano così ricaricare le pile tra un set e l’altro. D’altro canto ha reso troppo labile il filo conduttore di una serata che non ha approfondito come dovuto certe parti più interessanti, appesantita da altre meno valide.
Comunque di fronte ai veri sperimentatori di norma alzo le mani, di fronte a quelli un po’ meno veri preferisco citare qualcuno più bravo di me: “domandiamoci piuttosto se c’è chi ha davvero la voglia di ascoltare certi brani, certe opere”. Edoardo Sanguineti, “Cinquantanni di musica elettroacustica”.
Autore: PasQuale Napolitano / Foto: Daniele Lama