Il senso di Kaleidoskope 01 è quello di riavvicinare il pubblico partenopeo alla musica live, lasciandola per una volta uscire dai sacrificati e striminziti percorsi dell’asfittico circuito cittadino, consentendogli un’espressione adeguata, spazio, una buona acustica.
Con questo primo appuntamento il risultato è stato raggiunto, visto anche il calore e l’interesse con il quale il pubblico si è stretto intorno all’esibizione dell’anima migrante di Raiz.
Il quale non delude tanto entusiasmo, fornendo una performance maiuscola, in particolare sotto il profilo vocale; la voce caldissima e tellurica che è l’elemento (troppo?) centrale di Wop (acronimo di “Without papers”, il modo in cui venivano chiamati gli emigranti italiani negli usa, come dire “ignoranti”), il suo ultimo lavoro. E’ anche in virtù di questo riscoperto bagaglio vocale che Raiz rapisce subito il proprio pubblico, che da par suo dopo tre brani è gia tutto in piedi a ballare, a ondeggiare. Cullato e scosso dal suono carnale che il suo complesso, ma forse dovrei dire sound system, riesce ad esprimere: il suono di basso più completo che si possa immaginare, compatto, tagliente corposo; è questo che, proprio come nelle epiche cavalcate dub degli Almamegretta, proprio come Bill Laswell aveva ben insegnato loro, fornisce calore e struttura agli episodi più felici: Gramigna, Black Atena, Il rap east cost di Wop contaminato con le intramontabili Sole, Sud, Sang’ e Anema. Quando parte tutta d’un fiato il capolavoro che è “Nun te Scurdà” e, sguardo al cielo, la dedica alla memoria di D.RaD, il concerto è la suo apice emozionale.
Tuttavia la chiave di lettura del concerto è paradossalmente proprio nei pezzi più fragili, nelle canzoni dal sapore etno dell’ album solista. Perché, tolta qualche incontestabile caduta qualitativa come “Scegli me” con chitarra acustica alla medley di Vasco, Raiz le prende sotto la propria robusta protezione, custodendole, tramite l’interpretazione appassionata e appassionante che ne sa dare. “Questa è una canzone per gli amori finiti” arringa, e parte “Nun me vuo’ cchiù”, quella che nel disco è un, seppur gradevole, oggetto misterioso, nella performance live diventa un dolce, divertente, accattivante recital italo/inglese/napoletano degno del Merola dei tempi d’oro, ma con un piglio ancor più glocal, scevro del reazionario bagaglio di luoghi comuni di cui è portatore il maestro. Traslato il tempo, esteso lo spazio.
Autore: Testo e foto di PasQuale Napolitano