La vita, nonostante tutto, riserva ancora delle meravigliose sorprese. In una fase in cui i grandi del jazz scompaiono, una resurrezione artistica è notizia alla quale va dato il massimo risalto, soprattutto se riguarda uno dei signori che hanno contribuito a fare grande la musica d’improvvisazione. Anni ’60. Grimes, dopo aver figurato nelle formazioni guidate da Gerry Mulligan e Sonny Rollins, si avvia a diventare uno dei contrabbassisti più richiesti della scena sperimentale di New York. Il suo approccio allo strumento, basato su un utilizzo spregiudicato dell’archetto, gli vale diverse partecipazioni a sessions con Cecil Taylor, nuovamente con Sonny Rollins (che nel frattempo attraversava la sua, purtroppo breve, fase free), Don Cherry, Albert Ayler, Archie Shepp, Charles Mingus, che finiranno su numerosi album targati ESP e Impulse. E’, o almeno sembra, l’inizio di una carriera folgorante.
Se non fosse che, un giorno del 1968, per ragioni ancora ignote, ma probabilmente legate a scelte professionali sbagliate o al rifiuto di certe logiche commerciali che iniziavano ad impadronirsi anche del jazz, Grimes lascia New York per la California, svende il suo contrabbasso e si ritira in uno scantinato di Los Angeles, vivendo di espedienti. Lo danno per morto, in un paio di occasioni è lui stesso a dover smentire un necrologio apparso su un quotidiano. Tutto ciò fino a che, grazie alle ricerche di un fan e all’interessamento di alcuni colleghi, il blackout si interrompe e il contrabbassista di colore esce da un tunnel durato poco meno di 40 anni.
Oggi, dopo aver fatto trionfalmente ritorno sulle scene newyorkesi con un festival di 5 giorni a suo nome, è protagonista di un attesissimo tour europeo, a capo di una formazione che vede Perry Robinson al clarinetto e John Betsch alla batteria. La data campana, la prima del lunga sezione italiana (che vedrà anche un’appendice a Novembre) è accompagnata da una degustazione di vini, contesto non inusuale per un concerto jazz, finendo, però, per scontare in parte il chiacchiericcio di chi ritiene la musica una noiosa appendice di altri piaceri.
Il concerto, dunque. Le traiettorie (dis)armoniche disegnate dal trio si accavallano ed esplodono l’una sull’altra, soprattutto nella lunga suite introduttiva, aperta da un fulminante assolo di Grimes (ineguagliabile il suo uso dell’archetto), e nel pezzo finale, dove gli schemi, oramai saltati, finiscono per ricomporsi ad unità, trasmettendo una sensazione di quiete dopo la tempesta. Nel mezzo, c’è spazio anche per un omaggio a Sonny Rollins (‘Oleo’) e alla tradizione (‘Oci Ciornie’), brani riconoscibilissimi pur essendo la loro struttura originaria stravolta, come solo tre improvvisatori di lungo corso possono permettersi.
John Betsch sostiene il suono dei compagni con movimenti raffinati, ritagliandosi spazi per stacchi sincopati ma mai oltre le righe. Un tocco dinamico e leggerissimo, che esplode nei rari momenti in cui i due solisti gli lasciano campo libero. Perry Robinson, ispiratissimo (forse anche per merito del vino che gli vedo bere prima del concerto), tortura il suo strumento, lo spreme fino a fargli emettere suoni che si arrampicano senza sosta l’uno sull’altro, in un caleidoscopio di chiaroscuri che si intersecano alla perfezione con le linee tracciate dal leader. Che, a dispetto dei 70 anni e della tenuta da pensionato con cui si presenta sul palco (ingentilita da una fascetta Nike da pivot NBA di un tempo che gli cinge il capo) ha ancora la voglia e la forza di trarre dal suo contrabbasso armonizzazioni affascinanti nella loro nevrotica compostezza. Un trio compatto, scuro e rilucente allo stesso tempo, capace di dare vita ad un flusso sonoro di ipnotica bellezza.
Autore: Andrea Romito