Il viaggio è lungo e scuro, sull’autostrada diluvia anche. Macchine e tir più difficili da sorpassare quindi, ma nessun deragliamento avviene grazie a Dio. Ci fermiamo all’autogrill per andare in bagno, il solito autogrill coi soliti bagni tappezzati di numeri di telefono alla ricerca del solito sesso mercenario. La macchina fa finta di non partire, poi riparte.
Andretta è un paesino sperduto nella landa dell’Ofanto, buttato lì in mezzo, in salita.
Dai suoi bar esce la musica di Vinicio, com’è giusto che sia, le ragazze un po’ belle un po’ cafoncelle sono tutte in giro: è la festa del paese con tanto di luminarie e di giostra, ma se sia quella di Zampanò non lo so mica. Ci sediamo nella piazza principale, seduti in sedie bianche di plastica bianca; gente anziana di paese con nipoti al seguito sopravanza di gran lunga giovani no-global con damigiane di fumo al seguito. Facce strane e contente, anche la mia, bello.
A noi personalmente i paesani (ma non ne siamo sicuri) ci spacciano del vino rosso andato aceto e un panino alla salsiccia andato secco (insomma ci hanno fatti fessi), ma non c’importa più di tanto perché non siamo venuti qui per mangiare, anche se l’ebbrezza data da un vino paesano ci avrebbe fatto proprio piacere.
Vinicio fa (è) il contrario di un film muto, questa sera: questa sera si parla molto, ma non si vede niente, ci avverte, più o meno dice così, sì. Del resto siamo rimasti solo voce, e questa è una voce profonda. Quindi l’ussaro Vinicio prende a raccontarci storie e storielle del paese dei “coppoloni” (era un coppolone quello che ci ha fregato col vino, di questo sono sicuro), ma suona poco, canzoncine popolari o sconosciute perlopiù, poche delle sue insomma, coadiuvato da un piccolo ussaro come lui (fortunosamente stonato, però non fastidioso) che suona la chitarra a pedale. Vinicio stasera legge e non suona, è per questo che ci ha detto di metterci comodi. Lo abbiamo ascoltato.
La famiglia è in prima fila, così pare, così il buon Vinicio non manca di dispensare perle tipo: “La vita è bellissima, e poi ti sposi.” …a trovarla qualcuna che ci sposi Vini’, a trovarla! Bisogna prima trovarla, qualcuna che ci sposi! È necessario, anzi, che dico, è più che necessario! Auspichevole direi, se la parola esistesse. E se mai lo faremo, sposarci intendo, il nostro vestito sarà quello di Peter Sellers in Hollywood Party!
Poi arriva il turno del mitologico Ciccillo, apparso solo dopo la seconda chiamata, proprio come i più grandi artisti: il leggendario e trippato (nel senso di dotato di trippa prospiciente) Ciccillo canta e ciancia a più non posso parendo non voglia più lasciare il palco. A un certo punto dice di essere stato invitato, proprio quella mattina, in Messico (incredibile!) e negli Stati Uniti (come?), è quando tutti sperano che abbia finito e invece no: “Ma come t’ si’ fatt’?!” si rivolge al nostro che, dal suo canto (appunto), non può che guardarlo zitto e muto, grattandosi il mento, lisciandosi i baffetti, chiuso in un reverente timore che si userebbe solo nei riguardi di uno zio buono ma che pretende rispetto affinché non debba arrivare a far uso di disciplinanti scapaccioni. È Zio Ciccillo appunto, prima che alchemico ristoratore, cantante pure lui e zio di Vinicio!
Alfine, dopo soli miei vari e notturni, il nostro eroe riesce a mandar via Zio Ciccillo facendo l’unica cosa che può fare: evocarlo cantato in storie di veglioni immaginari e nottate amorose sognate. Da Ciccillo ristorante, dieci portate al prezzo di una: non sembra così tanto un coppolone, questo Ciccillo. Ma bisogna pur sempre provare per dire, però.
Vinicio, schivato il logorroico zio, si riprende e attacca ancora con le sue storie di kuta-kuta e cavillosi paesani cuori-di-cane: non ci sono femmine in queste storie ma solo rancorosi, e se ci sono queste femmine compaiono solo in veste di amate alla follia che di notte non ti aprono il portone… è da qui che nasce il rancorrrrr!
In questi casi il pubblico sembra apprezzare di più e, seppur non pagante, sottolinea, conferma e applaude queste storie, belle e paesane come le ragazze che lavorano e vanno in giro solo la domenica mattina.
Il parlato/letto caposseliano finisce dopo circa due ore e mezza: è tardi e nel paesino affollato c’è un lupo che ulula lontano, adesso, ma, fortunatamente, nessuno è andato marciando al camposanto questa sera, lì si va a marcire piuttosto, è cosa risaputa, ma stasera nessuno ha avuto questa voglia, di marcire intendo, semmai di vita, quella tanta, quanta ce n’è, sì, meglio così.
Il nostro conclude e decide di andarsene scontroso e veloce, di nascosto, ma la sua è solo timidezza, ammettiamolo, lui è abituato alla lentezza e infatti rischia pure di ruzzolare giù dal palco. Coperto dagli amici fidati suoi scudieri (tutti i sognatori della Mancha spagnola-e-non ne hanno almeno uno, si sa), molto probabilmente va a nascondersi nella Contrada Chiavicone, appunto cosiddetta perché lì ci vanno solo i toponi, manco le tope ci si azzardano, e nessuno viene a cercarti lì; e poi, se proprio chissà perché così ostinati volessero cercarti comunque, lì è difficile scovarti, così come accade in tutti i posti della fantasia che brucia la testa senza far danni oppure sì.
Bambini laser e giovani urlanti hanno disturbato il declamante lettore questa sera, lui li ha pure guardati severi, ma loro niente, continuavano, lì a divertirsi e scostumare, sentendosi in diritto di toccarti solo perché sei tornato al paese d’origine a suonare senza venire pagato. La stessa cosa che accade (ma forse no) quando stupidi ragazzini fanno piangere donne che amano, anche se non c’entra niente dirla questa cosa, la voglio dire lo stesso: stucchevole lo so, ma l’Amore ha bisogno pure di stucchi stucchevoli e stoccafissi talvolta.
“Qua due sono le cose: o canti, o porti la croce”, ha affermato in fine il nostro amico.
Poi ci sono quelli che cantano mentre portano la croce, vero Vini’?
E forse sono proprio i più coraggiosi, ma questa però è un’altra storia… no?
La cosa importante da ricordarsi sempre, quella sì, è che però non si muore tutte le mattine e meno male: guidate con prudenza e buonanotte!
Autore: Lucio Carbonelli