No, gli Europei di calcio ancora non sono iniziati, ma un afoso giovedì di Giugno si presta meglio al refrigerio domestico – o, ancor meglio, outdoor – che non a un ennesima discesa nei sotterranei inferi dello Slovenly. Eppure ci siamo, e contrariamente alla tradizione (?) di questo covo di rock’n’roll mongoloids (ipsi dixerunt) stasera non ci sono Melt Banana o Queers di turno a generare caldo. Non fa nanche tanto caldo, a dire il vero. La densità umana è, appunto, umana, e in tali condizioni il sotterraneo si appropria quasi delle doti che rendono una cantina adatta alla stagionatura e all’invecchiamento. Ma soprattutto, non c’è il bollore torrido del rock. Forte di un precedente demo, e di un altro nuovo da poco sfornato, il partenopeo Illàchime Quartet corona stasera il suo corteggiamento nei miei confronti. Ma come, ci lasciamo sedurre da una band senza etichetta – e non si tratta neanche di amici – ?! Beh. Non uno, ma tanti beh…
Una cosa l’abbiamo già detta: niente rock’n’roll, per stasera (e cavolo, Walter e soci non ne sembrano neanche tanto addolorati). Due: i protagonisti di stasera sono musicisti, nel senso pieno della parola: nulla della loro visibilità è affidato al look, a un’etichetta – nel senso non discografico –, a una qualsiasi entità collettiva sovra-band (niente scene, “giri” etc.). Certo, gli amici in sala non mancano, ma non mi danno l’impressione di una compatta colonia in autobus auto-deportatasi da qualche altro club di più abituale frequentazione (capito cosa intendo? a Napoli, e forse anche altrove, c’è una “scena” che ti deve sostenere, se no buonanotte…). E anche l’età avanzata dev’essere traccia di esperienza consumata, e buona consigliera di ciò che ci apprestiamo ad ascoltare. Tre (soprattutto): non solo non è rock’n’roll (niente in contrario, comunque). E’ avanguardia, sperimentazione, creatività a livelli elevatissimi.
Eh già, in attesa di brevettare nuovi termini forse di queste ultime paroline si fa un eccessivo utilizzo, a beneficio, talvolta, di chi scambia l’avanguardia con la lungimiranza nella gestione del proprio portafoglio (ma perché, non si tratta comunque di “guardare avanti”?). Ma gente, qui si fa davvero sul serio. Lo dicono anche i volumi, da subito, forse insensatamente alti, o forse è la disabitudine, ma quei primi colpi su rullante e corde – note alte – fanno sanguinare i timpani (hey, ma noi non eravamo quelli dei Pixies al Primavera Sound in quarta fila? che rammolliti…). Ma presto ci si abitua, così come presto ci si lascia catturare dalle complicate tessiture sonore, dalle dissonanze che quadrano, dagli scatti brucianti e nervosi di chitarra e batteria che si fanno riagguantare dalla tastiera, impostata sul timbro del pianoforte, dal basso che scava nelle budella, dal violoncello che pure scava, sempre più giù, ma altrove, nell’inesprimibile, dagli spettrali affreschi di quando tutto tace tranne la chitarra, scordata o stonata che sia (su disco riesce meglio – comunque è ‘Silos’, l’incipit).
Ecco, credete forse che dentro di noi, dove tutto è buio, suoni una melodia coerente e lineare? Nient’affatto. E certo, abbiamo bisogno anche di questa, dall’esterno, per la nostra vita, ma se la musica ha anche la possibilità – e quindi il compito – di dare espressione a ciò che altri mezzi non ha per prenedere forma, allora, qualche volta, che sia. La sensazione, di sgomento straniamento pur se all’interno dell’io, è quella che riescono a darmi i King Crimson di “Larks Tongues in Aspic” o “Starless and Bible Black”, anche se pochissime sono le assonanze e dei frippiani frattali latita ogni traccia. C’è bisogno di chiudere gli occhi a momenti per domare il cozzare quasi epico di forze espressive frattanto scatenatosi. Un concerto così, voi, come lo definite?
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