Magari ci si aspetta violento e caotico noise ed invece con i Guapo ci si ritrova in un qualche punto indefinito tra il 1967 ed il 1973 fatta salva una ritmica strana e sincopata a cui spetta l’indubbia funzione di link con il presente; il resto è tastiere e synth a tappeto infinito per il passaggio dal Testaccio alle galassie lontane e siderali dei primissimi Floyd e dei pionieri tedeschi della kosmische musik. Questo prog-psych sebbene abbia dell’apocalittico nelle sue derive più estreme, è lontano anni luce dalle atmosfere malate dei Tarantula Hawk, anch’essi memori delle lezioni progressive 70 che fanno copulare però con un sorta di avantgarde black metal e se stasera ci si poteva aspettare qualcosa del genere vista la composizione del pubblico che può accorrere ai Fantomas, si era del tutto fuori strada. Fantomas che si fanno attendere all’infinito fin quando arriva Patton che sistemato il microfono fa un piccolo soundcheck. Ed ecco comparire anche Dave Lombardo (Slayer, Grip Inc.) tra le urla dei metal kids presenti che bramano con la bava alla bocca e a buona ragione quel treno ad altissima velocità che è la sua doppia cassa e quelle gragnuolate di colpi che quando si abbattono danno una buona idea del concetto di potenza. La ‘capa rezza’ di Buzz Osbourne (Melvins) lo fa somigliare ad un Robert Smith maligno e tanti son lì anche per la nostalgia di quel periodo sinceramente ‘rock’ degli anni novanta quando il termine grunge non era stato ancora coniato ed il nostro, che si faceva chiamare King Buzz, inscenava oscuri siparietti surreal-metallici in quello stesso Nord America che avrebbe partorito anche Nirvana. Ed infine Trevor Dunn, buon gregario di Patton già nel circo zappiano (e zorniano) dei Mr. Bungle. La sua mohicana dichiara agguerrite intenzioni che insieme alle intuizioni di Buzz esalteranno la lentezza e la parte rock più schizopatica dei Fantomas, costruendo solide basi di gotico rifferama e stranianti blues-core che permetteranno a Mike Patton di fare l’impossibile mostrando tutta la sua genialità, versatilità e demenza. Ovvero come da un soffice finto soul (ricordate i Faith No More?) possa generarsi un’epilessia che dà luogo a salti incondizionati verso una catartica free music imparentata ai Naked City e ai Painkillers e ad altri illustri macellai del sol levante che incontrano il mondo dei cartoon. Anche chi non ha mai adorato, come chi vi scrive, certe produzioni della Ipecac che fanno dell’ossessione per la discontinuità e per la frammentazione sommo verbo e di cui Patton vuole esserne in occidente l’alfiere, avrà colto che con musicisti del genere quel senso di improvvisazione e di dispersione non lo si incontra quasi mai. L’incastro delle parti è perfetto, senza sbavature e tutti i suoni precisi ed intensi, tesi, anche nelle fasi più parodistiche. Patton è proprio a suo agio e gioca in casa tra balzi e saltelli, urla efferate da vergine stuprata ripetute all’infinito in falsetti distorti comici e gustosissimi ma a tratti agghiaccianti per le repentine trasformazioni che richiamano dimensioni ignote, stranianti, sospese, nelle quali non si sa se ridere ebbri o aver paura delle sinistre minacce che sembrano richiamarci da dentro. Il finale è divertentissimo con la presentazione del gruppo da parte di un Patton davvero in forma con un accento quasi siculo che dice pressappoco così: ”questo qui è ‘lombardo’…crede di essere cubano ma è piemontese…quest’altro pischello qui è ‘buzzosborne’ che è un metallaro proprio come voi..e quest altro qui si chiama ‘trevordanne’ e l’abbiamo raccolto nel campo zingari qui fuori…”. Vecchio diavolo di un Mike sempre a giocare.
Autore: A.Giulio Magliulo