Arrivo all’Horus alle 22, convinto di essere perfettamente in orario. E invece quando entro nel club Josh Ritter ha già finito il suo opening act. Tutta colpa dell’insana abitudine a pensare che nei club i concerti non possano mai iniziare prima di mezzanotte.
La sala è stracolma e nell’aria c’è già attesa fremente e note di Nick Drake.
E’ davvero palpabile l’emozione del pubblico quando la band attacca le prime note di “Delicate”. E la magia di quella voce così fragile e intensa, che tanto m’aveva colpito su disco, si materializza sulla prima strofa sussurrata al microfono. Il ragazzo non è un bluff, è la prima cosa che penso sentendolo cantare, e tiro un sospiro di sollievo.
Il pubblico segue con attenzione, in religioso silenzio. Puoi sentire il rumore di un accendino, e se qualcuno schiaccia un bicchiere di plastica si girano tutti. Rendo l’idea?
Damien suona sin da subito senza risparmiarsi. Annuncia che purtroppo Lisa Margeret Hannigan, la splendida voce femminile presente nel suo disco d’esordio, “O”, non è presente perché non si sentiva molto bene. Ed eccolo che si arrampica su falsetti impossibili per cantare le parti che in studio erano di Lisa, o abbassare di tono un pezzo per poterci arrivare con la voce.
Damien scherza col pubblico, spiega le circostanze in cui è nata una canzone e auto-ironizza sul suo rapporto con una certa ragazza, discute con un tipo in prima fila che alza un cartello “I love Dublin” (e lui: “Ci sei mai stato? Ti è piaciuta?”), impasta un improbabile spagnolo con un ancora più improbabile italiano, che provoca non poche risate.
Ma soprattutto suona con passione vera, affidando alle sei corde della sua chitarra struggenti spleen, che spesso si traducono (questo davvero non me l’aspettavo) in tempeste di feedback, rumore, distorsioni (anche sulla voce), parti vocali mandate in loop, e sguardi persi nel vuoto.
Damien il menestrello irlandese flirta volentieri col rock, rievocando i due Buckley: Tim nelle pieghe psichedeliche che increspano di tanto in tanto i suoi arrangiamenti lineari, e Jeff quando la sua voce, nella commozione generale, si libra leggerissima a intonare Hallelujah (che ormai pochi ricordano essere un pezzo di Leonard Cohen, probabilmente…).
“Amie”, dedicata a tutti quelli che abitano in posti dove piove in continuazione (“The same old scenario / the same old rain”), è bellissima, nella sua fragilità, spogliata di quei violini che su disco la appesantivano un po’, e accarezzata solo dalla chitarra acustica e dal violoncello di Vyvienne Long. “Cold water” è una richiesta che viene dalla platea, subito accontentata. Una ballata che avanza col passo felpato, tra sospiri e improvvisi cambi di tonalità.
Il primo bis è “Cannonball”, che sarà pure banalotta, ma è innegabilmente una di quelle canzoni che possiedono un’alchimia magica… una di quelle scritte col solo intento di ficcarsi nel nostro cervello per non uscirne più, e di solleticarci il cuore con discrezione, senza provocare dolore. Ben più struggente è l’interpretazione, in chiusura, di “Volcano”: trascinante, liberatoria, che Rice suona strappando letteralmente le corde, lasciando il pubblico senza fiato fino alla fine.
Applausi calorosi, sentiti. Gran bel concerto. Ho la vaga impressione che la prossima volta l’Horus non basterà…
Autore: Daniele Lama