Domanda: cos’è l’arte? Altra domanda: chi e sulla base di cosa può giudicarla?
Di solito queste domande non saltano alla mente nel parlare di ciò che ci appare interpretabile alla luce di un significato “chiaro”. Questa sera, benchè giunti in grave ritardo, una buona parte del concerto è stato ascoltato. E il giudizio tarda a giungere, prima incalzato e poi sorpassato dal rigurgito dei citati interrogativi. Che non troveranno risposta, se non indirettamente in quello che, a mente lucida, può definirsi come resoconto di questa – ve lo anticipo – strana serata.
Va premesso che Cambuzat non era con band al completo, ma beneficiava, per lo sviluppo delle sue tematiche, dell’ausilio del solo pianoforte – oltre che della sua voce. Del cugino di Amaury (Ulan Bator) sappiamo un sacco di cose ma senza il privilegio della fonte diretta: artista stlisticamente poliedrico, che ha attinto tale caratteristica dai numerosi posti del mondo in cui ha soggiornato per periodi mai lunghi; un nomade, o ancor meglio un apolide, abbandonato agli ideali libertari dell’anarchia, uno che lascia fluire i suoi streams of consciousness su questo o quell’argomento di carattere storico-sociale senza porsi limitazioni di convenienza. Valgono oro, probabilmente, le lodi lanciategli da Thurston Moore (“uno dei migliori/innovativi [adesso non ricordo bene] artisti europei”, recitano anche la locandine affisse per strada). Ma, appunto, chi e sulla base di cosa può giudicare l’arte?
Diciamo in maniera acritica a cosa abbiamo assistito dal “loggione” di questo teatro in cima ai quartieri spagnoli: Cambuzat legge – in perfetto italiano, vista la sua attuale residenza salentina – appunti, memorie, scritti, insomma brandelli di storia riguardanti le vicende della resistenza spagnola (quella di metà anni 30 contro l’imminente dittatura franchista) stando appoggiato a una sedia; più o meno canta, ogni tanto urla senza microfono; il pianista riproduce passo passo le sfumature e gli accenti drammatici della prosa, secondo uno schema di sonorizzazione non molto dissimile da quello del cinema muto, o degli spettacoli di performance art.
E’ evidente, per non dire ostentata, la volontà di Francois di presentarsi senza censure al pubblico. Un frenetico spegni-accendi tabagistico accentua il ritratto di decadente confezionato per la serata. La prosa si fa seguire, ogni tanto. E’ una sorta di elaborazione personale di quella vicenda storica, idealmente partorita da chi l’ha vissuta in prima persona, quella che Cambuzat snocciola, con una tempistica a volte estenuante. Decisamente più teatro civico che non musica. Privo però di quella capacità di coinvolgimento senza la quale il racconto si riduce a qualcosa che sarebbe meglio fare tra le mura domestiche, tra amici e senza un biglietto da pagare. Non è affatto questione di remotezza temporale del contesto trattato, come inizialmente pensavo. Il problema è nella estrema soggettività con cui la faccenda viene trattata. Avrebbe potuto anche rotolarsi a terra Cambuzat. Ma lo avrebbe fatto come se davanti non avesse nessuno. Con libertà, sicuro, ma senza preoccuparsi sul come (e sul se) il messaggio arriva a destinazione.
Il sospetto di trovarmi di fronte a una forma d’arte “ulteriore” rispetto alle mie capacità di comprensione è stato forte. Ossia: problema mio o dell’artista? E, precisiamo, non mi ha interessato neanche sentire altri pareri per cercare di risolvere l’atroce dilemma. Non mi hanno spaventato quelli che sembrano aver visto Dio, né mi hanno confortato quelli che poi ho scoperto aver abbandonato la sala anzitempo (il bis, peraltro, ha registrato anche qualche insolito rumoreggiamento di alcuni in platea). Forse una proposta eccessivamente intellettualizzata per la mia portata. Ma forse anche qualcosa che non si può sdoganare così a buon mercato per il nome che si porta (teatro gremito – allora ha un seguito, cacchio…).
Autore: Bob Villani