Il New Age di Roncade nella campagna trevigiana è uno storico locale per chi bazzica il circuito dei live set, non so quanto sia, ma so che di certo è un bel pezzo che i Mogwai non fanno tappa proprio qui dove la nebbia non dà tregua, è normale dunque la fila lunghissima davanti alla cassa che ci accoglie non appena sopraggiungiamo all’ingresso.
Che i Mogwai appartengano di diritto alla stirpe dei padri fondatori del si detto POST ROCK, si chiami così o meno, sembra in ogni caso trovare d’accordo il mood generale della serata, un clima eccitato e composto di chi vuol ben fare la prova del nove agli ascolti su disco risultati illuminanti
Entriamo alla spicciolata e sul palco Malcom Middleton orfano per l’occasione della creatura Arab Strap, è tutto solo sul palco immerso nel gioco liquido di luci rossastre come i suoi corti capelli.
Storie biascicate e pallide sul filo di pochi accordi racconta la voce di Malcolm, per mezz’ora e forse più, nella migliore tradizione low fi che la stirpe britannica conosca, storie da consumare in cuffietta nell’intimità della propria camera che poco sembrano riuscire nella fibrillazione per una serata votata alla sperimentazione sonica e al noise.
Sono le 23, Malcolm suo malgrado è contento, sembra commosso quasi, saluta con un gran sorriso, che bravo ragazzo, via, cambio scena: sul palco s’affaccendano i fonici, e le strumentazioni e i fili e gli accordi.
Uno ad uno i 5 si fanno dentro, entrano svelti, senza clamore, sono loro Mogwai e da quasi 10 anni, nemmeno un saluto che attacca il sound, l’intro intimo ed emozionato di “Kids will be skeletons” che cresce e che scoppia singhiozzando boati incontrollabili nell’orecchio di chi sta sentendo, si va avanti: in “Mogwai for Satan” si ha tutta l’impressione di essere in balia di una spirale trascendente tesa verso l’uscio che definisce l’armonia estetica del suono dalla disarmonia sostanziale del rumore. E poi “Don’t you know jesus?”, “Ratts of the capital”, “Summer” abbozzi impressionisti e ampie architetture di chitarre e “May nothing but happiness come through your door”, riverberi e giochi di grande rimando alla scuola Sonic Youth.
Una scaletta che prosegue controversa, spaziando nel loro passato in bilico tra slo-core e gesta più soniche e celebrali (da Ten Rapid, Young team e Come on die young) ma dando soprattutto respiro all’ultimo album (Happy songs for happy people), il loro album mainstream qualcuno aveva scritto, della maturità aveva scritto qualcun altro, ci restituisce un’istantanea di enorme standard e di innegabile dote tecnica, capace si di stupire l’auditorio, ma anche di risultare un evento freddo, che a soluzioni più intense e intraprendenti ha scelto di prediligere sonorità ostiche e celebrali, rumoristiche industriali di repertorio che ad orecchi non novizi riescono come cose di facile effetto, ridondanti per molti versi (su tutti, nei bis, “My Father My King”) maliziose quasi, che seriamente dà da pensare all’universo Mogwai come al film di un materia complessa e composita il cui nucleo e la cui galassia non sia davvero il suono ma piuttosto la sua formale dote estetica.
Autore: Laura Fortin