Una calda serata di inizio estate. San Lorenzo, quartiere universitario della capitale. Quattro chiacchiere con Antonio Di Martino, meglio conosciuto semplicemente come Dimartino. Classe ’82, questo giovane cantautore siciliano, reduce dall’esperienza giovanile nella band Famelika, ha da poco pubblicato il suo secondo album “Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile“, dopo il successo dell’esordio da solista “Cara maestra abbiamo perso” uscito nel 2010.
Cosa ti ha spinto a passare dall’esperienza di una band come Famelika a un progetto da solista, incentrato principalmente su di te e sulla tua musica?
I Famelika erano una cosa che avevo creato quando ero molto giovane, avevo solo sedici anni. E negli anni mi sono accorto che come diceva Carboni “le band si sciolgono”. Forse per evitare un’altra delusione dovuta allo scioglimento di una band, che è un po’ come quando ci si lascia con qualcuno con cui si sta uscendo. Allora ho pensato di mettere il mio nome e di puntare su me stesso. Più che altro per rendere duraturo quello che facevo.
Come ti sei avvicinato alla musica? Qual è il tuo primo ricordo legato a questa?
Il mio primo ricordo è legato a mio fratello, che suonava il basso. Allora ho trovato a casa questo strumento strano, una sorta di chitarra a quattro corde, e ho cominciato a provare i giri di basso dei pezzi dei Pink Floyd e di tutte quelle band degli anni ’60 e ’70. Scrivere canzoni è arrivato dopo il mio approccio allo strumento.
Cosa è cambiato, nel tuo modo di scrivere, nel passaggio dal primo al secondo album?
“Cara maestra” è fatto di canzoni che avevo scritto molti anni prima, tranne pochi brani scritti in uno stesso periodo. Per cui mi sono ritrovato con tutte queste canzoni che non erano state scritte nello stesso momento e appartenevano a periodi della mia vita molto diversi.
Invece per il secondo album ho scelto alcuni mesi da dedicare alla scrittura dei pezzi, aggiungendo poi “Io non parlo mai” e “Cartoline da Amsterdam” che appartengono al mio repertorio.
Com’ è stato lavorare con Dario Brunori (cfr. Brunori sas)?
E’ stata prima di tutto un’esperienza umana. Noi non produciamo calze o scarpe, quindi se non c’è un rapporto umano è difficile riuscire a far bene le cose. Anche nel primo album con Cesare Basile si era instaurato un bellissimo rapporto che ci ha portato a fare anche altre cose in Sicilia. Con Dario l’approccio si è basato molto su una comune appartenenza, non tanto geografica, quanto sociale. Veniamo da due famiglie del sud e abbiamo un rapporto con la vita con degli aspetti molto simili.
Che rapporto hai con la Sicilia?
Ho un rapporto bellissimo con la Sicilia. E’ una terra dalla quale non riuscirei mai a staccarmi. Anche se vado via per lunghi periodi ho sempre bisogno di tornare a casa. Ho un rapporto particolare anche con l’acqua, se non vedo l’acqua attorno a me mi sento come sprofondare. Ieri ho suonato a Torino ed eravamo di fronte al Po e il semplice fatto che che ci fosse un corso d’acqua mi faceva sentire “a casa”. Noi siciliani abbiamo il mare ovunque ci giriamo, abbiamo un rapporto particolare con la geografia. Credo che un siciliano che vive in Pianura Padana a un certo punto comincia a soffrire. Non so come potrebbe chiamarsi questa malattia, forse “decentramento”.
In copertina ci sei tu che sorvoli un cielo di nuvole. Cosa volevi esprimere? Ho notato che i lacci delle scarpe sono sciolti, è voluto?
Quella foto non doveva essere la copertina. Diversi fotografi mi avevano fatto delle foto per quella copertina e alla fine ho scelto quella che era un provino. Mi stavo provando l’abito e mi sono seduto su quella sedia nella mia cucina, le scarpe non le avevo ancora allacciate perché mi stavo ricambiando. Mi piaceva l’idea del fotomontaggio, l’idea del viaggio da fermo. Come quando gli italiani arrivavano ad Ellis Island e li fotografavano davanti ad uno sfondo. Mi piaceva l’dea che io potessi essere fermo e lo scenario dietro di me potesse cambiare. Rappresenta bene il concetto espresso nella canzone “Io non parlo mai” che dice “passa il tempo e lo spazio resta sempre quello”. Io sto cambiando ma dietro di me non cambia nulla.
Come mai la scelta di questo titolo insolitamente “lungo”? Come mai proprio questa frase?
Sono un appassionato di film e mi piacciono molto i film di Lina Wertmuller. Quando li guardavo in tv e appariva il titolo in sovrimpressione, non riuscivo mai a impararlo tutto ma in un certo senso me lo ricordavo. Mi ricordavo il concetto che esprimevano. Ma il motivo è soprattutto perché non ho trovato una frase più breve per esprimere lo stesso concetto.
Le tue canzoni sono affreschi dell’Italia di oggi, disegnati in modo metaforico e suggestivo, o canzoni d’amore tormentato. Cosa vuoi raccontare?
Mi piacciono molto i concetti universali. Oggi ci sono molti gruppi che riescono a descrivere la realtà di oggi con parole di oggi e si soffermano su delle circostanze. A me piace parlare in maniera universale, dei rapporti che esistono in generale dell’uomo col mondo. Io non riesco a parlare di oggi con oggi. Mi piace di più confrontarmi con l’universo, con qualcosa che ci sarà sempre, non con una moda.
Quando scrivi nasce prima il testo o la musica? O vengono fuori insieme?
Non c’è una regola. Ci sono anche canzoni di cui ho scritto il ritornello nel 2006 e la strofa nel 2010. E’ un modo di scrivere che va molto per collage.
Che risposta stai avendo dal pubblico durante i tuoi concerti?
Una cosa bella che sto trovando nei live è che il pubblico è molto eterogeneo. Trovo dal sessantenne al ragazzino di sedici anni. Probabilmente sto arrivando dove volevo arrivare, e cioè non a parlare a una generazione, ma alla singola persona. Senza identità particolari o target precisi, ma a tutte le persone che si ritrovano nelle parole.
I tre dischi che porteresti con te su un’isola deserta
“Anime salve” di De Andrè, è un disco che ogni volta che lo ascolto ho i brividi. E’ un disco che non ho ancora capito bene, quindi voglio ascoltarlo ancora. Ogni volta che lo ascolto trovo delle cose nuove. Poi porterei “In rainbows” dei Radiohead, e una raccolta di pezzi di Rosa Balistreri, che secondo me è il personaggio siciliano che più rappresenta il periodo storico che va dagli anni ’30 agli anni ’70 in Sicilia, molto più di tanti scrittori gonfiati dai critici letterari.
Autore: Roberta Cacciapuoti
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