Alessandro Raina (nella foto), frontman e mente poetica degli Amor Fou, non conosce la leggerezza o non l’ha mai incrociata.
Un mancato incontro che gli regala lo sguardo unico e disincantato dell’artista: quello sempre pronto a delineare i contorni delle cose, quello che crede nell’urgenza dell’arte, contro quella delle mode.
Lo incontriamo un pomeriggio assolato al Circolo degli Artisti su una panchina di legno incorniciata di verde, prima del concerto degli Amor Fou, insieme al bassista e il chitarrista del gruppo.
Raina detesta Facebook e la dipendenza che il social network ha inculcato nella maggioranza delle persone. Voleva fare il giornalista, ma si ritrova a fare il musicista, scrive però di calcio per il Mucchio e tiene un blog, La stagione del Cannibale da cui osserva, pensa, polemizza la piccola provincia italiana e non solo. Pensa che il regista Paolo Sorrentino sia uno dei più grandi autori italiani in circolazione attualmente. Attraverso poche domande, ecco il ritratto di uno dei figli più sofisticati e intelligenti della musica italiana.
Amor Fou è un progetto a cui ciascuno di voi è approdato dopo percorsi musicali di successo. Quali sono le esigenze che vi hanno indotto a lavorare insieme?
Il progetto degli Amor Fou è nato in un momento di riflessione, gli attuali componenti sono anche diversi da quelli che gli hanno dato vita in principio. Tutto è partito da un’idea di Cesare Malfatti che non ne fa più parte, che probabilmente voleva un po’ condensare la sua esperienza con i La Crus, io venivo dai Giardini di Mirò e gli altri, pure reduci dai La Crus. Giuliano si è aggregato per il tour del primo disco, mentre Paolo, il bassista, si è unito al gruppo per ultimo.
In realtà è stato tutto solido da subito. Non è mai stato considerato come un progetto parallelo o una cosa che non avesse presupposti chiari. Con l’ultimo disco si è creata una band che ha avuto modo di lavorare insieme per due anni e questo ha compattato l’entità di questo progetto. Questo ultimo disco testimonia la nostra coesione. Tra me e Leziero Rescigno, batterista e creatore dei brani, si è subito creata una forte complicità dal punto di vista dell’immaginario e dell’espressività.
Per metabolizzare tutte queste idee abbiamo ritenuto indispensabile condensarle in un disco, un cambio di formazione. È stato un progetto che ha rappresentato un momento di svolta sulla carriera di ognuno e sulle cose che sentivamo di non aver ancora fatto.
Il primo disco è stato recensito benissimo ed è stato un grande successo. Con i Moralisti siete arrivati al secondo album, firmando con la EMI. È una conferma per quello che poteva essere, inizialmente, solo un esperimento, un tentativo isolato?
In effetti questo disco rappresenta l’idea originaria degli Amor Fou. Non è un lavoro di produzione ma di scrittura e di esecuzione dei brani principalmente. Noi per primi ci sentiamo più rappresentati da questo disco e ci siamo resi conto da subito che le canzoni facevano più presa e arrivavano di più a qualsiasi tipo di ascoltatore, dai fan alle persone che ci sentono per la prima volta. Gli Amor Fou sono in effetti quelli di questo disco, a cui abbiamo lavorato senza mai pensare di essere dentro ad un progetto parallelo. Ha sempre avuto la priorità.
Molte canzoni dell’album come De Pedis, Anita, Filemone e Bauci, raccontano delle storie e delineano ritratti ben definiti. Oltretutto, proprio Filemone e Bauci deve il suo titolo al mito greco ed è anche un racconto inedito che hai scritto e pubblicato sul blog La stagione del Cannibale, che tieni costantemente aggiornato. Quale rapporto c’è tra la musica degli Amor Fou e la letterarietà?
Il rapporto con il mondo della letteratura e dei racconti è molto diretto. Io vengo dal giornalismo, il mio sogno era quello di scrivere, non di fare musica, però sono arrivato a fare musica perché scrivevo; questa cosa è rimasta sempre nei miei lavori precedenti, davo molto risalto ai contenuti letterari e alla forma dei testi. In Amor Fou questa cosa viene fuori in modo ancora più spontaneo: il progetto si basa sulla tradizione culturale italiana, non solo musicale, quindi c’è la volontà di dare una cura particolare ai testi senza perdere di immediatezza.
Dunque Amor Fou come storytellers. Come vi vedete inseriti nel contesto del cantautorato italiano?
Sicuramente c’è stata la volontà di ripescare certi presupposti di una tradizione cantautorale italiana, non solo quella impegnata ma anche più banalmente la tradizione della canzone italiana in generale, che soprattutto dagli anni settanta in poi ha avuto una grande fioritura di contenuti e rappresentazione. Penso anche ad autori come Pino Daniele e Renato Zero, Ivan Graziani, magari artisti che non sono considerati cantautori in senso stretto, ma che comunque hanno sviluppato grandi contenuti sotto nuovi punti di vista. Il fatto che le loro canzoni vengano spesso considerate più commerciali, al di là dell’accezione negativa di questa etichetta, li qualifica come grandi comunicatori. Come Amor Fou, ci sentiamo parte di questa cultura. Spesso nei nostri live proponiamo cover che tributano un po’ a quella scena, come il Carrozzone di Renato Zero.
Una recensione entusiastica del vostro primo album vi paragonava a Vittorini e Pavese: come i letterati italiani hanno importato una certa cultura d’oltreoceano nel panorama letterario italiano, così voi in quello musicale avete portato al di qua dello stivale suggestioni estere, inglesi in particolare… come vedete questo parallelismo?
Non c’è dubbio che gli Amor Fou abbiano anche un retaggio musicale estero, internazionale. Per cui abbiamo cercato di condensare le due cose. Pensiamo allora a certi esempi di Brit pop come i Pulp o i Blur: in gruppi come questi l’elemento letterario non è mai stato recepito come colto, pesante, indice di un impegno particolare, ma come qualcosa di anche abbastanza scontato. Questo è un punto di blocco per gli italiani. Negli ultimi venti anni si è dato soprattutto spazio a temi introspettivi, lasciando troppo da parte uno sguardo sul sociale. Il pop è in grado di trasmettere questi elementi di narrazione, che in questo momento, in tempi come questi, sono davvero importanti per dare stimoli di riflessione.
Ma c’è soprattutto molto dell’Italia. In De Pedis, in particolare, colpisce molto il ritratto romantico e amaro che fai di Roma e di Trastevere, quasi come se quei luoghi ti fossero appartenuti, nonostante il tuo immaginario fondi le sue radici tra Milano e Pavia…
In questo nuovo disco abbiamo lasciato da parte ogni tipo di autobiografismo. Ci abbiamo messo dentro elementi di fiction, di narrazione. Se per il nostro disco d’esordio l’immaginario e gli scenari erano più milanesi, I Moralisti raccolgono un panorama tutto romano, che attinge alla letteratura, al cinema, soprattutto quello neorealista, ma anche e soprattutto dalla cronaca. Roma in questo periodo assorbe tutto quello che attraversa l’Italia socialmente, condensa tutto, ci sembrava giusto allora parlare della capitale come simbolo del volto della nazione. Dobbiamo tutti capire dove e come stanno andando le cose.
Autore: Olga Campofreda
www.amorfou.it – amorfou.blogspot.com/ – www.imoralisti.it/