Autori quest’anno di un disco bellissimo come “Like a smoking gun in front of me”, i Franklin Delano – tornati da poco dagli Stati Uniti, che hanno attraversato in un tour estenuante – sono ormai una delle più apprezzate band del “panorama indipendente italiano”.
Per conoscerli più da vicino abbiamo fatto qualche domanda a Paolo Iocca (cantante/chitarrista della band), che ci ha spiegato – tra le altre cose – del rapporto particolare che il trio emiliano (ma Paolo è nato e cresciuto a Napoli) ha con l’America, con la “canzone” e con i “fratelli maggiori” Califone…
Siete tornati da poco dagli States. Con quale spirito avete affrontato questo tour? Quali erano le vostre aspettative? Sono state disattese o potete considerarvi soddisfatti?
Il tour si prospettava molto duro (e così in effetti è stato), quindi ci siamo preparati molto, sia fisicamente che spiritualmente. Eravamo consapevoli che rispetto agli artisti americani, noi siamo un po’ viziati. Sound checks, alberghi e cene pagate, drink tickets a volontà. Tutto questo non è affatto scontato laggiù, a causa dell’enorme inflazione di artisti che vogliono emergere suonando dal vivo. Ogni sera almeno tre bands e un veloce line check. 5 minuti per montare il backline e provare se tutto è a posto, 5 minuti per tirare giù tutto, mentre già il gruppo successivo sta montando la propria strumentazione. Aggiungi a questo il fatto, non da sottovalutare, che i nostri strumenti erano quasi per intero presi in prestito da vari amici di Chicago, e che quindi abbiamo dovuto fare un po’ con quello che avevamo.
La media di 800 km al giorno, un day off ogni 7/10 giorni, 24000 km totali alla fine del tour.
Qualche band più giovane avrebbe forse potuto risparmiare qualche dollaro in più facendosi puntualmente ospitare da qualcuno ai concerti, ma a volte le situazioni in cui rischiavamo di incappare (e nelle quali a volte siamo incappati) erano a dir poco scomode. Spesso abbiamo preferito investire in “salute psicofisica” cercando un motel – peraltro molto economici dappertutto.
Abbiamo visto paesaggi e situazioni, conosciuto persone e frequentato artisti indimenticabili. Siamo tornati a casa arricchiti enormemente da tutto ciò che abbiamo vissuto laggiù.
Certo non sono mancati momenti di nervosismo, visti i ritmi che abbiamo sostenuto.
In definitiva siamo certamente soddisfatti e orgogliosi di essercela cavata egregiamente, sia a livello tecnico (credimi, la qualità media delle “local bands” negli USA è altissima) che a livello psicofisico. In molti erano preoccupati per la nostra tenuta, Califone e File 13 per primi. Poi ci hanno visti dopo la prima tranche, al concerto all’Empty Bottle a Chicago, e hanno tirato un sospiro di sollievo… eravamo ancora interi, in forma e col sorriso sulle labbra.
Riguardo il vostro precedente soggiorno in America e il lavoro fatto insieme a Brian Deck e ai Califone: ci puoi raccontare qualche aneddoto? Ci parli delle sensazioni che vi ha dato questo rapporto – sul piano sia umano che professionale – e il suo apporto alla versione “definitiva” del disco (che, se non sbaglio, era stato già registrato interamente in Italia…)?
Per me lavorare con Brian e con i Califone, nello studio dove hanno preso vita dischi tra i miei preferiti di sempre, è stato un sogno realizzatosi e il coronamento di un lavoro di squadra che ha coinvolto Onga, il nostro manager, Madcap Collective e molte altre persone che, al momento giusto, hanno influito consciamente o meno, sulla buona riuscita del nostro progetto, a cominciare dallo stesso Stefano Pilia.
Da Brian e dai Califone abbiamo imparato la calma e la serenità nel fare le cose, la scioltezza nella sperimentazione, l’abbandono di ogni preoccupazione riguardo il rispetto di “consuetudini”. Abbiamo imparato l’amore e la passione per l’evento.
Abbiamo avuto anche il tempo di divertirci talvolta, alla sera, dopo le sessions giornaliere. Ricordo ancora quella volta in cui ci siamo fermati in un pub vuoto, che secondo Brian era una copertura per affari di altra natura (eravamo nel quartiere italiano). Ricordo ancora cosa passava il juke box: “Cat Scratch Fever” di Ted Nugent.
È chiaro che lavorare con Brian ci ha salvati da un rischio molto reale: “subire” un missaggio all’italiana (o all’inglese) su un prodotto che per sua natura meritava un trattamento molto particolare. Abbiamo pensato che nessuno meglio di Brian avrebbe potuto interpretare il nostro sound. Suppongo che anche lui abbia pensato la stessa cosa, visto che ha dimostrato di voler lavorare con noi a tutti i costi.
I Califone hanno farcito un disco comunque già confezionato, di piccole ma stupende gemme. I loro sono quasi tutti brevi inserti di vari strumenti, a parte il violino di Jim Becker su “Me And My Dreams”. Guardandoli all’opera abbiamo cercato di carpire il loro segreto… chissà se ci siamo riusciti. Lo capiremo solo quando registreremo un nuovo album.
Ai Clava ci siamo sentiti come a casa. Non abbiamo mai avuto l’impressione di correre dietro al tempo e allo stress. È stata un’esperienza estremamente rilassante.
Insomma: è molto probabile che Brian metta le mani anche sul nostro prossimo album e che i Clava studios siano ancora utilizzati dai Franklin Delano – se non in toto, almeno per una parte del lavoro…
Qual è il vostro rapporto con la “canzone”? Ascoltando i vostri brani sembra ci sia una sorta di attrazione/repulsione nei suoi confronti…
Hai colto un punto importante del nostro stile. È vero, i nostri brani sono sempre cresciuti in una sorta di odio/amore per la “forma-canzone”. A noi piace sperimentare, ma il materiale di partenza è sempre abbastanza orecchiabile e strutturato. Inutile dire che a un certo punto ho smesso di vedere questa incongruenza tra struttura e sperimentazione come un problema. Probabilmente la forma-canzone è destinata ad avere un ruolo sempre più preponderante nella nostra musica con il passare del tempo, mentre la sperimentazione diverrà molto più sottile e microscopica, a volte interna alla stessa struttura.
Dal vivo la vostra musica sembra tendere al raggiungimento di uno stato di catarsi, o quasi di “trance”. In concerto i vostri brani mostrano una spontaneità e una naturalezza tale che mi viene da pensare che siano tutti nati da delle jam session in libertà… è così?
L’idea è sempre quella di “incantare” l’ascoltatore e fare in modo che si perda nei meandri del nostro suono. Certo, abbiamo molte parti “free-form” all’interno dei nostri brani, che abbiamo imparato a gestire e cavalcare insieme non solo grazie alle jam in sala, ma anche grazie ai tanti concerti effettuati. A un certo punto infatti, prendi così tanta dimestichezza con le tue parti e con il modo in cui queste interagiscono con le altre, che inizi a muoverle incessantemente. L’ascolto reciproco – su cui il nostro sound si fonda – fa il resto. Se uno di noi tre modifica una propria parte, gli altri seguono con naturalezza il flusso creato. Difficile da spiegare, molto semplice da capire assistendo a un nostro concerto…
In che modo l’ingresso nella band di Vittoria Burattini ha influito sulla definizione del vostro sound attuale? Cosa ha determinato questo cambio nella line-up?
Nel 2003, quando la transizione è avvenuta, io stavo già da un po’ componendo brani molto lenti e catartici. Marcella era sulla stessa lunghezza d’onda e le sue parti erano molto “ambient”. L’idea era quella di reiterare il groove e farlo crescere in modo costante e coerente. Samuele, il batterista precedente, non sentiva questo aspetto come preponderante, insistendo invece su variazioni continue sul proprio strumento. Questo “spezzava” continuamente questo groove di cui noi due eravamo in cerca. In realtà Samuele non avrebbe comunque potuto dedicare il100% del proprio tempo alla band. Vittoria aveva lo stile giusto per creare il “gorgo” che cercavamo ed era più pronta di Samu al passaggio da band “dopolavorista” a band “full-time”.
Bologna: città in fermento, ricca di stimoli e di buona musica o piccola realtà provinciale dalla quale fuggire appena possibile?
Ci si può lamentare del posto in cui si vive e lavora, si può andare via, o ancora, si può influire per cambiarlo. Bologna per me è una città come un’altra, in un paese come un altro. Non mi sento particolarmente bolognese – sai benissimo che sono nato e cresciuto a Napoli – e non mi sento neanche particolarmente italiano. Mi sento libero di vivere ovunque mi venga voglia e di sentirmici a mio perfetto agio.
Ciò non toglie che ogni posto ha potenzialità specifiche che è necessario riconoscere e valorizzare. Bologna è un posto di grande fermento culturale. Questo a volte può aiutare chi tenta di far arte.
Nuovi progetti in cantiere…?
È in arrivo il video di “Please Remember Me”, curato da Vittorio Demarin, nostro grande amico e artista poliedrico di grande spessore (anche lui su Madcap Collective, sia con i Father Murphy che con i propri dischi e progetti multimediali). Stiamo sia lavorando a un tour europeo che a ricuperare le lacune del nostro scorso tour italiano di Marzo, piuttosto breve a causa di altri nostri impegni e del sopraggiungere delle date americane.
Quindi saremo di certo molto impegnati a suonare in giro per l’Italia, sia durante l’estate che in autunno. Il resto è una sorpresa.Autore: Daniele Lama
www.franklindelano.org