I Verbaud sono una band volenterosa, qui al primo album, di rock italiano, che si segnala per atmosfere alla Afterhours e Marlene Kuntz, anche se vengono fuori qua e là sprazzi di ricerca di una identità individuale e autonoma. Peccato che questa identità venga ricercata nella direzione dell’intellettualismo a tutti i costi (come capita purtroppo a molte band italiane, che per il solo fatto di sapersi distinguere dalla marmaglia commerciale targata Italia pensano perciò di essere i Pink Floyd), con testi che vorrebbero essere ermetici ma sono solo incomprensibili e spesso senza significato, con immagini e grafica ricercati e ultrastudiati, con richiami ai poeti maledetti (Verlaine e Rimbaud, ovviamente) che francamente potevano rimanere a godere del loro meritato riposo eterno senza essere scomodati così.
Le capacità musicali non mancano, effettivamente: la tecnica c’è, e si sente, l’inventiva pure: solo che si perde poi nella dinamica complessiva che resta quella trita e ritrita delle due chitarre distorte, ben sorrette da batteria e basso, senza sprecarsi nella ricerca di qualche sonorità più originale che pure i Verbaud sarebbero capaci di offrire. La voce regge ed è suadente: ma spesso ricerca la distorsione gracchiante, quando invece, nella sua limpidità attrae molto di più.
Non mancano nemmeno i possibili “singoli” con cui essere lanciati nel mercato: Plastica, ad esempio, è di sicuro ed immediato effetto, come pure Guggenheim, o la tesa Giorno Unico, ma poi nel finale l’album muore un po’ con pezzi come Vuoto, Cieli Grigi, Le mani, che non sembrano molto ispirati.
Ma parliamo comunque di una discreta qualità complessiva, specie se il livello di riferimento è il rock italiano, dunque bisogna incoraggiare: basterà seguire le linee più ispirate di alcuni pezzi (Sostanza per esempio è un bell’incompiuto) e non cercare a tutti i costi la distorsione e la durezza, quanto invece l’originalità del sound. Ma già così è un buon inizio.
Autore: Francesco Postiglione