Va in scena una strana chimica quando si parano davanti agli occhi (e alle orecchie) i magnifici templari del giradischi di casa nostra, gli Alien Army. Non credi a ciò che vedi e senti. Comincia la sessione coordinata di scratch e in due secondi allacci un’empatia sinaptica con quelle dita marziane che si muovono, si muovono, si muovono. Uno spettacolo diverso, una tipologia di rockstar che non si sa poi veramente che cavolo fa, con i cursori avanti e indrè e i vinili segnati dal nastro adesivo. Questo bel tantra, ahinoi, dura poco. Quando sono passati già dieci minuti l’effetto (placebo?) svanisce. Anzi non fa solo per liquidarsi, ma si tramuta in avvelenato fastidio. Quel suono strappato da dove viene? Il beat come cammina? Ma poi che ci importa di stare appresso a qualcosa che alla fine musica non è (o non sembra)? Le percussioni – per agganciare un paragone monocorde ed ossessivo – invitano alla danza estatica: ci si dimentica che girano su se stesse in quanto, se dell’umore giusto, diventiamo noi il tamburo che batte. Ma gli scratch no. Restano tesoro di chi li crea. Difficile farli “propri”. Sono i rischi che gli Alieni corrono davanti ad una platea generazionale indifferenziata che è nata con il lettore cd già sul comò e non ha mai preso né un vinile in mano, né – figuriamoci – ha menchemmai provato a posizionare la testina dell’ancient giradischi per cominciare la festa del solco-che-suona. Colpa di nessuno certo, ma il difetto dello show dei tre cavalieri col cappellino – Tayone, John Type e Skizo -, così come proposto nel dvd in argomento si concentra lì, nell’incoscienza della tecnica. Il turntabilism è arte sopraffina, ma si circoscrive a pochi filosofi delle ruote d’acciaio (nome di battaglia di Technics 1200 e derivati). “Scratchoetry” di Tayone è allora zen mentale seduto alla destra del crossfader, “Paranoia” un rigoroso programma armonico metaindustriale. John Type in “Apache” comanda a bacchetta il disco come seguisse le note di un pentagramma. Le falangi si destreggiano allenatissime, alla stregua di un suonatore stoner di contrabbasso.
“The End Tour” non fa altro che sorprendere e annoiare. Sorprendere e annoiare. E’ la eccelsa maledizione dell’hip hop e delle quattro matrici radicali. Fanno tutte lo stesso effetto, sia l’mcing, il djing, il breaking e perfino l’aerosol art: i b-boys si squagliano dalla goduria per tempi infiniti; i profani di contro, dopo la primitiva meraviglia, guardano e sentono il vuoto. Prendere o lasciare? In onore ai progressi tecnici raggiunti dallo storico ensemble italiano diciamo, almeno, tentare.
Autore: Sandro Chetta