Nuovo album per gli Yuppie Flu. Parliamo di una delle band più apprezzate della penisola, o no? Dipende dalla scala di riferimento. Se consideriamo “indie” Marlene Kuntz e Afterhours, le vette del riscontro di pubblico sono lontane; altrimenti ci siamo, con loro e i Giardini di Mirò chi altri può ritenere di guidare la classifica?
La questione però non è da poco, specie se in grado di condizionare le scelte di chi i dischi li fa. Proviamo a guardare l’esito dei 3 dischi precedenti della band di Ancona. La critica è dalla loro, e per nulla a torto: avevano cominciato con una geniale reinterpretazione dello spirito slacker e dell’attitudine (oddio, ben più di un’attitudine) lo-fi di cui i Pavement, oltreoceano, erano a quel tempo i portabandiera; poi hanno scoperto l’elettronica come strumento per completare il dna delle loro melodie, frattanto smussatesi agli spigoli e ricopertesi di un sottile velo di malinconia, prima (il crepuscolo bossanova di ‘Boat or Swim’ in “The Boat” EP), e di un’aura di cerebralità quasi epica – ma sempre in una veste “low-profile” – poi (la sensibilità progressive di ‘Drained by Diamonds’ nel precedente “Days Before the Day”). Erano riusciti a fare anche qualche capatina all’estero, tanto per suonare dal vivo quanto per vedersi pubblicare i dischi da XL e Rough Trade – non l’etichetta diy vattelapesca, per intenderci. Soprattutto erano riusciti a creare un sound nettamente distinto da tutti gli altri – cosa preziosissima, volete scherzare?
Ciononostante era pure abbastanza evidente come gli Yuppie Flu non fossero una band “di culto” – di quelle cioè capaci di costruire attorno a sè, nell’ambito di un seguito più o meno ristretto, un “indotto” fatto di peculiarità nel pubblico apparire, di aneddoti curiosi sul proprio conto, di un’estetica condivisa dai fans, di qualsiasi mitologia, anche la più piccola. Né, rifacendoci ai nomi di cui sopra, dei campioni di vendite.
Vi sembrerà uno sproloquio fuori luogo quello appena intavolato, ma l’ascolto di “Toast Masters” dà la sensazione, piuttosto netta, che questi ragionamenti non siano stati alla larga dalle teste dei 5 marchigiani. Qualche tarlo sembra essersi insinuato nei meccanismi compositivi, e di galleria in galleria il sound sembra aver perso quella complessità – tuttavia fruibile – che lo caratterizzava. Come se ora, al centro di tutto, ci sia la necessità di far ballare il pubblico ai propri concerti, o di far tenere il proprio disco in play – o, ancor meglio, sulle playlist radiofoniche – nelle circostanze più disparate – anzichè unicamente in momenti “dedicati” –, come ogni prodotto che si proponga di essere, appunto, di “largo consumo“.
Le chitarre sono di nuovo al centro di tutto, anzi rosicchiano spazio anche alla “periferia” del sound, nel tentativo – almeno apparente – di imporre nuovamente lo spirito “svogliato” degli esordi, senza le acerbità di allora – che non avrebbero senso dopo ormai 10 anni di carriera ma che, nell’economia del sound-e-basta, sanno più di genuino – e con un sentire punk che pare un vago – tipico cioè di chi non è propriamente “del mestiere” – traino per un pubblico sì indie ma meno esigente, più “di massa”. ‘Make a Stand’, e forse la conclusiva ‘Europe Is Different’ riescono a porsi su un tenore compositivo più elevato, ma non sembra che gli Yuppie Flu vogliano che il core-sound di “Toast Masters” risieda – e che l’attenzione degli ascoltatori si soffermi – qui.
Cambiare è lecito, per carità. A patto che la molla non sia la paura di sentirsi “sfigati”, ossai incompresi, per ciò che si è suonato. Non ne saremmo molto contenti se il nuovo disco ci piacesse, tanto meno (ed è il rischio principale di un tale modus operandi) se il risultato è sacrificare il coraggio di osare, in uno con il meglio che si è stati in grado di offrire. Che appunto non è qui – benchè il disco non sia peggio di tantissimi altri. Ma è proprio quella la “molla”? Stavolta è me che rode il tarlo…
Autore: Roberto Villani