Collaborazioni? Ne abbiam viste a mai finire, dai. Se però queste vanno a costituire un ponte tra la penisola e gli States, allora possiamo anche tirar fuori una sola mano e cominciare a contare. Pensiamo ai Bellini, innanzitutto. Ma la prima piazza d’onore spetta a David Lenci e Sean Meadows, a meno che non abbiate altre proposte.
Questa joint-venture tra uno dei nostri engineer/fonici indie più apprezzati (ha fatto i suoni anche a Steve Albini, le deduzioni potete anche farle voi da soli…) e il geniale ex-chitarrista dei June Of 44 che furono sta peraltro avendo vita abbastanza duratura. Oddio, dopo il debut album omonimo e il successivo tour, è chiaro che David e Sean non hanno condiviso tutto il loro tempo di lavoro, ma credo non fossero in molti a pronosticare che a distanza di 3 anni da quelle registrazioni (ai Red House studios di Senigallia, appunto, dove Lenci è solito lavorare) saremmo stati nuovamente qui a parlare di “quei due”, e per giunta per un nuovo episodio discografico.
Oltretutto il progetto trova la sua ragion d’essere in questioni di ordine profondamente estetico-musicale, giacchè a convolare a nozze sono il rock nervoso e sporco con cui Lenci è uso aver a che fare e una “cerebralità hard-boiled” che può sintetizzare l’essenza stilistica di Meadows. Componenti che, ai fini della riuscita di tale unione, partono comunque col piede giusto di un comune denominatore radicato nella natura spiccatamente elettrica del sound con cui i due si sono fatti riconoscere.
Chitarra e voce moltiplicato due, quindi – più un terzetto basso-batteria-hammond che ha rimpiazzato i Laundrette del debut album –, per un album che, anziché risolversi in una sfida incrociata a suon di geometrie chitarristiche, si libra negli spazi aperti di ampie circumvoluzioni psichedeliche sotto la spinta propulsiva di chitarre a basso pH che amano osare in prossimità della loro saturazione. A “Essential Ordinary Revolutions” non manca praticamente nulla di un disco acid-rock come si deve. Neanche le voci riverberate, neanche qualche lenta allucinazione space-rock (‘Anthroversight’, originariamente registrata a San Francisco con Joe Goldring aka Captain Onboard), neanche quella moderata vena blues che renda tutto ancor più bollente, e neanche, soprattutto, la ruvidezza che può derivare – come effettivamente accade nella fattispecie – da una registrazione in presa diretta. Laddove mancano, per fortuna, le pesanti dilatazioni di metallo fuso che rendono dispensabile un genere come lo stoner. Ispirazione, attitudine, talvolta anche velocità (‘Gumshoe’) sono inequivocabilmente punk-rock: per Ozzy e i suoi figliastri non c’è posto, e va più che bene così.
E siccome a Lenci a Meadows probabilmente non va che il frutto di un loro lavoro congiunto possa etichettarsi come 100% di qualcosa, ecco in chiusura di album i fuori-programma, quali sono l’armonica blues-ballad di ‘I Found the Way’ e – anche se non si fa preferire all’originale – la cover della beatlesiana ‘I’m So Tired’ in ghost track. Ci resta un disco sanguigno come pochi. E vero, soprattutto…
Autore: Roberto Villani