Guerra in Iraq, europei di calcio in Portogallo, elezioni (e lo vogliamo dare un calcio nel culo a chi sapete?), reunion dei Pixies… ok, ci sono troppe cose a cui badare per stare appresso al nuovo disco dei Tasaday. Che fanno, un disco reggae per caso? Finalmente una valida alternativa al Sud Sound System mentre si rolla e si trinca vinello? No? Ah, ecco. Il solito indigeribile polpettone sperimentale con cui i tot brianzoli (adesso sono in 7 – ma vi immaginate quanto rumore?!) alzano la posta nel pokerino dell’avanguardia che si giocano con altri semi-malati di mente. E poi, per quanto possa anche lontanamente essere un buon disco (ma nulla di più, eh?), possiamo mai essere rappresentati, in qualche modo, dai Tasaday, nel caso ci recassimo all’estero e venissimo chiamati a riferire sullo stato delle cose del panorama italiano?
No, i Tasaday non possono assolvere a questa funzione. Cos’hanno fatto decine di mediocri gruppuscoli nostrani per ben figurare dietro tale candidato portabandiera?! Perché vedete, le due cose sono ben distinte. E l’altra faccia della medaglia dice questo: che i Tasaday hanno due palle grandi così. Senza contare gli album “non ufficiali” (e vorrei capire anche cosa s’intende con questa definizione – dove, quando, come e per chi sono usciti) “In Attesa, nel Labirinto” è il loro settimo capitolo, per complessivi 20 anni di carriera. E tutto sono oggi fuorchè una band in declino. Decimati al solo Alessandro Ripamonti nel 1999, i Tasaday hanno via via riacquistato Paolo Cantù, realizzato un paio di dischi (tra cui il progetto di fanta-produzione collettiva e a costi trasparenti “Kaspar”) e accolto altre pedine fondamentali del locale “fronte avanguardistico” (Xabier Iriondo, su tutti, ma anche Daniele Malavasi dei R.U.N.I., e l’immancabile Fabio Magistrali in cabina di regia).
Ed eccola, quindi, quest’ultima fatica, annunciata come il disco “rock” dei Tasaday. Anche se dobbiamo smentire tale presentazione (confermando la quale non so cosa ci saremmo trovati per le mani), “In Attesa, nel Labirinto” ha tutto ciò che occorre per prendere le distanze da chi si sbatte per scimmiottare questo o quel “pilastro stilistico” d’oltreconfine e proporsi come “landmark” anche fuori dalla penisola (posto anche l’angusta fetta di pubblico cui qui si può ambire). A cominciare da ‘Mindanao 1971’, minacciose nebbie ambient che, nel diradarsi, fanno spazio a oscuri fondali post-industriali. Ed è nuovamente inquieto lo scenario, con ‘Minotaurus’, il protagonista, appunto, del labirinto. Qui i Tasaday iniziano a spiccicare le loro prime, pesantissime sillabe, in latino, laddove sarà il tedesco l’idioma della traccia a seguire, che celebra, con pulsante incedere, la ‘Rinascita degli Dei’, ossessiva litania (“eine ges(ch)ichte”) squarciata da fendenti industrial-wave e chiusa da un’overdose di basso post-punk.
E mentre ‘La Terra senza il Male’ sembra concedere un po’ di riposo, ‘World as a Simulacrum’, con i suoi “keep” come incipit di ogni verso e la sua furia noise-industrial (quasi death nel cantato-recitato), può – oltre a ridare lustro a tal genere, altrimenti defunto – farsi accreditare come “credo” di questi Musicisti.
Ancor più sinistri, se possibile, i due conclusivi episodi. ‘Un Altro Sacrificio’ si addentra anche in territori free jazz (più tape-manipulation, altro “strumento” essenziale di questi geni), in un crescendo che troverà sospirata catarsi in isterici versi a voci sovrapposte, mentre ‘Mind Now 2004’ recupera il precedente silenzio per esprimere, con arcane liriche scolpite nella roccia, l’essenza della liturgia Tasaday, e farla lentamente scivolare nell’”oblio”, parola fine di questo capolavoro.
Autore: Roberto Villani