Che definizione attribuire, precisamente, al termine “cult band”? Se ne possono dire molte, a seconda di circostanze, punti di vista, umori e buono/cattivo esito di digestione. Cult band, per chi scrive, è quella che riesce a fare di sé, stilisticamente ed esteticamente, una bandiera che possa essere sventolata con orgoglio dai propri fans, in genere non numerosissimi (e già qui la dottrina si divide). Concetto a volte al confine tra contiguità e identità con quello di band di nicchia, ma non è il caso di star qui a gettare le basi di un Devoto-Oli giornalistico musicale. L’attenzione, nella fattispecie, va sulla numerosità dei fans. Posto che siano pochi, è auspicabile, per loro e la band, che rimangano in tal contingente? Può una siffatta band meritare il successo anche fuori dalla sua nicchia e continuare a fregiarsi, quasi come un vino doc, del marchio “cult”? Lo so, perdo tempo prezioso invece di spendere parole su questo mini-LP. Ma è esso proprio la fonte di una simile elucubrazione. Vorrei che un gruppo – sui generis, e sono riduttivo – come i Mariposa fossero sempre una faccenda per pochi. Ascoltatori fortunati, attenti, più o meno consapevoli di esser stati selezionati dai numi del gusto.
“Domino Dorelli”, l’album dello scorso anno, aveva già in sé i semi perchè i Mariposa germogliassero come gruppo non solo bizzarro e teatralmente sgangherato, ma dotato anche di una sensibilità rock per nulla “di compromesso”, anzi non poco ispirata nel suo – come ci si aspetterebbe da dei fuoriclasse – essere fuori da un qualche preciso “contesto” e in una dimensione marcatamente personale. Ora sono di nuovo tra noi – “già”, vorrei dire, in ossequio a una sorta di “parsimonia” nel concedersi tali “lussi” –, con 4 brani nuovi di zecca che arrivano nel consueto formato ciddì ai soli addetti ai lavori. Sarebbe? Che questi maledetti geni, oltre a inaugurare il catalogo del loro nuovo marchio discografico (“Trovarobato – la famosa etichetta”, nonché termine che i nostri hanno adottato per descrivere la propria attitudine “usa-e-suona” con qualunque cosa capiti loro tra le mani), intraprendono la strada del download-only (in cambio di una copertina non eccelsa, li trovate su naufragati.com, trovarobato.com e timet.org).
Adesso mi ricollego alle riflessioni di cui sopra per domandare: si può non aver ancora provato ad ascoltare i Mariposa? Ci sono in Italia alternative valide al punto da poter fare a meno di questa banda da musica? Si può essere soddisfatti di una “visione” musicale che non li contempli? E quindi, i Mariposa, possono aspirare al contraddittorio rango di “nota cult band” e aun ampio pubblico senza contraddire la genuinità e la qualità del proprio talento artistico?
La risposta è affermativa, decisamente. ‘Servitù Coattiva di Elettrodotto’ vede i nostri assoluti protagonisti di un lungo, “klezmerico” sogno mitteleruropeo in cui – “quello per questo è un sogno” – si materializza dell’inatteso “plasma” sintetici. Vale a dire: anche questo, nel loro già ampio spettro stilistico. E quest’altro ancora, ossia ‘I Bambini Collaterali’: para-electro-noise ossessivo e “riffato”, con la quale vorremmo tanto giocare ma – rispondono – “il pallone non è mio” (e già, volevamo tralasciare i testi di Alessandro Fiori?). E dopo il tiepido interludio acustico de ‘La Luna Ha Molto Tempo da Buttare’, veniamo informati, secondo la consueta nonsense da filastrocca, che ‘è Maturo il Tempo della Rivoluzione’ (sottotitolo de ‘Il Pappagallo’), mirabile saggio di quella che, da questo disco in avanti, riconosceremo come “musica componibile”. A loro, e a nessun altro, il palco delle nostre passioni.
Autore: Roberto Villani