Dopo cinque anni di silenzio, Nick Talbot aka Gravenhurst torna finalmente a pubblicare un nuovo album. In questo caso si opta per un ritorno all’atmosfere slowcore dei primi lavori (Internal Travels e Flashlight Seasons), abbandonando la tensione elettrica che aveva connotato The Western Lands.
The Ghost in Daylight è, infatti, un album estremamente introspettivo ed etereo, sviluppato su linee acustiche che vivono di una delicata alchimia fatta di arpeggi acustici, tocchi di elettronica e una ritmica appena accennata da una drum machine (Dave Collinwood, il batterista e collaboratore storico ha abbandonato il progetto nel 2008). Ad un ascolto distratto questo lavoro potrebbe sembrare come l’ennesimo sterile esercizio vintage. Tuttavia, nonostante ci metta un po’ per insinuarsi sotto la pelle, The Ghost in Daylight mette in mostra un cuore pulsante, pienamente allineato all’inquietudine dei nostri tempi.
Lo si percepisce nettamente attraverso lo stridente contrasto tra la bellezza malinconica dei suoni e la follia e il senso di disagio di cui sono pervasi i testi. Ne un esempio In miniature, una ballata folk tra le più solari, in cui il focus narrativo gira invece crudamente intorno all’omicidio di una ragazza: < <They try to capture the face of a killer/ In the eyes of a girl/ That last in its still on the retina/ On the retina>>.
In Fitzrovia, Islands e The Foundry il folk più placido lascia spazio a squarci elettronici ossessivi e ipnotici, a metà strada tra il krautrock e il trip-hop di Bristol.
Per noi questo è, senza dubbio, un album superiore alla media. Naturalmente la musica di Gravenhurst non godrà mai di un seguito di massa, ma non ci stupiremmo più di tanto se, tra qualche anno, dovessimo scoprire per The Ghost in Daylight un culto sotterraneo quanto elitario.
Autore: Alfredo Amodeo