C’è sempre da storcere il naso quando, di un artista al debutto discografico, viene messa in risalto più la difficile storia di vita che quello che l’album ha espresso. Non ci è dato sapere se proprio tutto quello che viene detto della storia di Willis Earl Beal sia vero. Pare che vivesse in indigenza in New Mexico e che stampasse dei volantini da distribuire in città per farsi conoscere; in seguito, ingaggiato come portiere notturno di un motel, ha iniziato a strimpellare quello che poi sarebbe diventato “Acoustimatic Sorcery”.
Pare che questi volantini gli abbiano assicurato anche delle opportunità, tra cui l’audizione per X-factor non andata a buon fine. Ora che l’album è tra le nostre mani, comunque sia andata la vicenda, qualche dubbio di autenticità ci resta.
Il disco è profondamente a bassa fedeltà, tanto che sembra pescato da qualche polverosa soffitta di case coloniali americane; definirlo naif è riduttivo, così come è riduttivo incastrarlo in una classificazione univoca. E’ blues, è rock, è folk e soul allo stesso tempo, c’è chi lo ha definito vicino a Tom Waits e non siamo lontani dalla verità. Più che altro ricorda un altro grande cantore nero per troppo tempo trascurato come Lou Bond, soprattutto nella patina sporca che avvolge i brani scheletrici, quasi abbozzati.
Non sappiamo se ci sia dietro lo zampino di qualche strategia di marketing, non resta che aspettare le mosse future, magari più compiute nella forma. Per ora ci sono grandi intuizioni e un talento ancora grezzo, ma vivo. Può essere sufficiente, ma è lecito chiedersi tutto questo dove potrà portare in futuro.
Autore: Enrico Amendola