I Ceremony sono una band della Bay Area di S. Francisco che partendo da un background tipicamente (post) hardcore approdano per il loro quarto full-length su Matador.
Il loro ultimo e.p. (su Bridge 9 Records) era un disco di cover che comprendeva – tra i nomi più famosi – brani di Wire e Pixies; oggi i Ceremony non fanno più hardcore poiché il loro suono si è dirottato verso un punk old-school e per questo ci stupisce ancor di più che siano su Matador, senza considerare il fatto che di bands che vengono dall’hardcore e nel loro evolversi vanno poi a suonare punk old-school non ne ho mai viste (semmai il percorso inverso sarebbe più comprensibile). Ma la Matador ha avuto i suoi buoni motivi.
Quando si dice ‘old-school’ significa che questo punk rock non ha nulla in comune con quello che oggi si spaccia per tale, cioè quel rock mainstream affetto da insopportabile cretinismo in zona MTV et similia (non farò nomi, ci siamo capiti).
Ma ripercorrere certe coordinate sonore decisamente datate non appare come un suicidio commerciale?
Basta sentire l’iniziale Hysteria oppure World Blue per rispondersi e dare ai Ceremony tutta la credibilità che meritano, perché fanno quel che fanno con grande convinzione e risultati: riff semplicissimi, anthemici (ma non volgari) da cui si innalza una batteria mid-tempo ed una voce strascicata, lamentosa, degna del miglior Johnny Rotten o qualsiasi altro marcissimo antieroe del ’77 che catturerà perfino gli ascoltatori più disincantati.
Citizen invece ricorda la sana energia dell’ultimo gruppo sinceramente punk rock degno della nostra attenzione, i New Bomb Turks. Con Repeating The Circle e Quarantine ci si sposta in area Wire e nei Wire c’è un solido riferimento alla musica dei Ceremony (ecco perché prima si citavano le cover): punk sì, ma tribale, secco, ironico, cinico ed intelligente (e per intelligente non si vuol intendere per forza ‘positive alla Fugazi’, anche se immagino che quest’album – prodotto da John Goodmanson (Blood Brothers, Girls, Sleater-Kinney, Weezer) – non dispiacerebbe affatto agli amanti dei Fugazi ed inoltre gli stessi Ceremony hanno un passato straight-edge).
Altri sentori forti in Zoo sono quelli di Pixies, come in Hotel ad esempio, dove una chitarra twangy sordidissima presa dai peggiori incubi di Rudi Protrudi segna un passo garage sghembo che incrocia le cose più ruvide (le prime) dei folletti di Boston. E tra punk e garage si incontrano anche i Wipers, eroi dimenticati per eccellenza del garage punk americano tutto.
Se a tutto ciò si aggiunge che i testi – che non hanno nessun intento didattico o di denuncia – sono frutto di riflessioni sulla nostra vita, comodamente organizzata, pianificata e quindi ingabbiata come nello Zoo del titolo, e dei relativi rapporti umani che ne conseguono, costantemente tesi tra l’amare ed il ferire, possiamo anche dire di essere in presenza di un buon disco, di un lavoro particolare e diverso nella selva di uscite discografiche che ci sfiorano senza farci soffermare.
Forse non ricomincerà di nuovo tutto dal punk ma almeno qualche spunto come questo io lo terrei in considerazione.
Autore: A.Giulio Magliulo