La cosa peggiore che può capitare, nell’approcciarsi a questo disco, io l’ho fatta. E sarebbe che uno si lascia prendere da un entusiasmo pazzesco e non vede l’ora di ascoltare la prima traccia pregustandosi già arpeggi e fruscii stile Into the Wild ma invece si ritrova un titolo che spiazza: V.E.N.O.M., che non si tratta di una canzone di denunzia contro l’inquinamento, e una linea vocale nient’affatto in linea con nessuna delle divinità boschive che abbiamo conosciuto facendo il liceo classico o leggendo Harry Potter.
Insomma, i cavalli sono tutto ciò che hanno in comune Band of Horses e Pulled Apart by Horses, e neanche troppo. I primi cavalli: belli, morbidi, le criniere pettinate tipo cavallo di Barbie. I secondi: brutti, zellosi, sanguinari, la cui attività preferita è dilaniare corpi umani (pulled apart by horses, come insegna wordreference, sarebbe “fatti a pezzi dai cavalli”).
Il disco che ho ascoltato io, manco a dirlo, era di quest’ultima band. Un mio amico una volta mi aveva detto che se una canzone non si avvicina al rumore di un gatto intrappolato ad una centrifuga accesa, allora non è musica valida. Secondo questa definizione, Tough Love è un alto esempio di ciò che di meglio le sette note possono offrirci. Se invece, mettiamo caso, il mio amico avesse dichiarato il falso fingendosi grande esperto di musica quale non è, allora il responso sarebbe questo: i Pulled apart by horses sono una band hardcore che però vuole anche vendere qualche disco. E allora che hanno fatto? Hanno rubato un pochino dagli Offspring di Smash nelle chitarre, nei coretti e nelle strutture delle canzoni e poi hanno sostituito la voce invecchiata dal fumo di Dexter Holland con una più giovane e acuta che renda maggiormente l’effetto “maestra d’asilo che cerca di far stare zitta una classe di quaranta bambini”.
Non avendo fegato di fare hardcore a tutti gli effetti, i PABH si sono limitati a confezionare in modo un po’ più ruvido qualche successo di punk californiano di fine anni Novanta-anni Zero, tipo i Distillers, tributati in Shake off the course proprio come io spesso mi sono trovata a tributare la mia compagna di banco nei compiti di fisica, quando proprio non mi veniva il modo di calcolare la velocità di caduta di un grave. Per non parlare del recupero dei tenerissimi Sum 41 in Epic Myth, pezzo più melodico e particolarmente prodotto. Come se ora che si avvicina Carnevale io andassi da Armani (o da Cavalli, giacchè siamo in tema) e gli dicessi di disegnarmi un vestito da barbone in tessuti pregiati. Insomma. Nonostante tutto Bromance ain’t dead è graziosa e suscita beffardi sorrisi e creativi propositi omicidi, se mentre l’ascoltate siete in un autobus affollato.
Autore: Olga Campofreda