“Non possiamo valutare a priori le conseguenze e le sofferenze di un cambiamento, dobbiamo semplicemente essere pronti ad accoglierlo. Questo disco è un passaggio, e come tale, delicato, e spesso decisivo. Tutti abbiamo sbagliato e tutti continueremo a farlo. Siamo umani”, recita il comunicato stampa dell’ultimo disco dei Piet Mondrian, “Purgatorio”, uscito il 7 novembre per Urtovox.
“Purgatorio”, ultimo lavoro in studio dei Piet Mondrian, è senza ombra di dubbio una delle cose più brutte che abbia mai ascoltato, sia dal punto di vista strettamente musicale (un pasticio new wave in salsa Joy Division) che sul piano dei testi (acerbo tentativo di emulare Federico Fiumani).
E se la proposta musicale (dall’approccio alla composizione all’esecuzione) non è granché, sono i testi “controcorrente” ad infastidire non poco, fatti di pensieri che sembrano scritti da un qualsiasi quindicenne pseudo-alternativo che tenta di darsi un tono sparando a zero su tutto e tutti senza nemmeno prendersi la briga di motivare, ed in più con una carica di presunzione che fa non poco incazzare.
Già la scelta del nome della band è indicativa di ciò: Piet Mondrian (quello dei quadrati della L’Oréal per intenderci), nome che, alla luce dell’atteggiamento della band sottolineato dai testi dei loro brani, sembra essere stato scelto come a voler ostentare una propria certa conoscenza dell’arte con lo scopo di elevarsi al di sopra della “massa ignorante” (cosa che mi ricorda taluni atteggiamenti radical-chic sinistroidi).
Mettiamo il cd nello stereo, parte “Paradiso Terrestre”, che apre alle nove tracce di un concept album sui sette vizi capitali: quella di Michele Baldini è una delle voci più stonate che si siano mai ascoltate dai tempi di Giovanni Lindo Ferretti (e meno male che c’è Francesca Storai a riportare un po’ il tutto su livelli quanto meno accettabili). La struttura melodica sfrutta armonizzazioni a metà fra quelle tipiche della musica popolare del centro-sud Italia e le filastrocche per bambini, elementi che vanno a cozzare con un contesto per certi versi new-wave dando vita a uno strano ibrido.
Il problema è che le melodie sono alquanto scontate, nulla che non si sia già ascoltato, e risultano a tratti irritanti.
In generale le linee melodiche presentate da qui in poi sono tutte delle filastrocche per depressoidi.
I testi sono spesso forzati sulla metrica e creano degli “spigoli” nella linea melodica davvero fastidiosi (cosa che ogni bravo cantautore dovrebbe evitare a costo di cestinare l’intero brano). Gli arrangiamenti sono volutamente scarni e ripetitivi.
Ora, voglio capire che la tecnica non è importante nella proposta di un prodotto artistico, e ne sono un fermo sostenitore, ma a tutto c’è un limite: e il limite si raggiunge nell’arpeggio iniziale di “Lussuria”, sgraziato come fosse suonato da uno che sta prendendo lezioni di chitarra da si e no un mese.
Qualche barlume di luce arriva su brani come la conclusiva “Antipurgatorio” o “Accidia” (se non fosse per il pessimo espediente del bridge recitato in maniera per niente comunicativa e ancora una volta irritante così come il ritornello). Anche “Avarizia” potrebbe essere un bel brano. Se non fosse cantato da Michele Baldini, che qui raggiunge picchi di “stonatezza” notevoli, e se si evitassero certe trovate melodiche nei cori che fanno rabbrividire. Stesso discorso per “Invidia”, che potrebbe essere una bella ballad arpeggiata. Se non la cantasse Michele Baldini. No, no. È che proprio la sua voce non mi scende.
Ma passiamo ai testi: sono di quanto più saccente, odioso, presuntuoso e tutta una serie di aggettivi similari possibili e immaginabili si sia mai ascoltato in giro, come a sentire il bisogno di dover innalzare il proprio status atterrando quello degli altri. Tra l’altro, come già detto, senza uno straccio di motivazione alle critiche mosse ma andando avanti, di brano in brano, a botte di stereotipi sociali che dimostrano la pochezza di tale impostazione.
Facciamo qualche esempio:
“Chissà cosa Dio voglia fare di noi, messo il caso che esista davvero” la trovo esemplare di quanto detto, con il suo atteggiamento da chi detiene fra le proprie mani la verità e te la sbatte anche in faccia con sarcasmo a buon mercato.
“È che la fame e le persone sono entrambi stupide”: parlando di presunzione.
“Ho 18 anni adesso voglio andare a Londra, ho 23 anni quando parto per Berlino, ho quasi 30 sono pronta per la Spagna, verso il mio destino, questo è il mio cammino. Guardo la foto di mio padre, e quella di mia madre e non è questa la fine che farò. Non perché voglia loro male, non perché li voglia avversare ma semplicemente non potrò. E mi accorgo che la mia vita mi sta sfuggendo tra le dita. Volere o non volere più soffrire di una scelta che potrebbe essere comunque in grado di impaurire chi ci crede di amare. Ho 18 anni e non sopporto l’ abitudine. Ho 23 anni adesso voglio stare sola. Ho quasi 30 anni e un uomo accanto che è un bambino, qual è il mio destino, dov’ è il mio cammino”: facile criticare degli stereotipi culturali.
Che poi magari uno potrebbe pure condividerle certe idee, ma così poste non sono poi tanto diverse da un qualsiasi sermone di qualsiasi religione o dottrina o similare, dagli inni di partito alla pubblicità del cellulare.
A voi l’ascolto e il giudizio finale.
Autore: Giuseppe Galato