Un incidente di percorso, durante una trasmissione radiofonica gli ha compromesso le corde vocali. Sembrava che Tim Holehouse fosse destinato a non cantare più, invece, subito dopo quella esperienza, si è rimesso in moto spinto dalla sua band, e ha continuato a cantare nei suoi sterminati tour.
Holehouse è il classico caso di quelle persone in grado di valorizzare e rendere pregi i propri difetti. I problemi alle corde vocali li ha trasformati in una qualità, tale per cui la sua ugola non si discosta da quella di Howlin’ wolf e da quella di Tom Waits.
Questo incidente lo ha indotto a concentrarsi maggiormente sul blues, anche se si è fatto accompagnare in studio da musicisti che vengono da band che suonano hardcore e metal.
“Grit” ha il sapore dell’antico, ma ha un gusto contemporaneo grazie a chitarre elettroacustiche e ad una ritmica imponente, ma non invadente e alla preziosa voce del protagonista.
Questo connubio emerge in particolar modo in “Blood to spill” un hard-blues con tendenze noise e nel vibrante blues-rock di “Into Mexico”, mentre le ascendenze del miglior indie-folk-rock Usa è magicamente espresso nella nervosa “Long road to nowhere”.
Un altro aspetto caratterizzante di Holehouse è l’omaggio che il nostro fa alla storia del cantautorato Usa, come emerge nell’intimista “The prisoner” che evoca la “State trooper” di Bruce Springsteen o “The devil went back down to Georgia” dove il link con il Tom Waits di “Bone machine” è profondissimo, come quello con la tradizione gospel-blues.
Ama stare a lungo in tour, se capita dalle vostre parti non perdetelo, assistere ad un suo concerto ne vale la pena.
Autore: Vittorio Lannutti