Se le inventano proprio tutte questi musicisti: non soddisfatti semplicemente di lanciare un nuovo album autoprodotto (il loro settimo in carriera, dopo i successi mondiali di Echo Park, Comfort in Sound, Pushing the senses e Silent Cry), i Feeder già da gennaio annunciavano l’avvio di un side-project, chiamato Renegades, che doveva coinvolgere il leader Grant Nicholas, il bassista Taka Hirose, e il nuovo batterista proveniente dai Ben’s Brother, Karl Brazil, dopo la separazione da Mark Richardson, tornato ai redivivi Skunk Anansie.
Prodotti due EP nel giro di pochi mesi, Renegades diventa non più il nome del progetto, ma un vero pseudonimo dei Feeder: con questo marchio, infatti, nel corso dell’anno i Feeder hanno svolto concerti dal vivo per presentare gli EP (nel frattempo le tracce pronte crescevano a 25) permettendosi di svincolare dall’obbligo di eseguire brani vecchi: solo Tangerine, Sweet 16, Descend e Godzilla restavano in scaletta, e venivano presentati come cover della band Feeder. E così Nicholas e compagni, fingendosi Renegades e non più Feeder, hanno trovato contemporaneamente una strategia commerciale per destare curiosità intorno all’album (che fonde i due EP), e nel frattempo suonare dal vivo i pezzi voluti senza legarsi mani e piedi ai vecchi brani.
Ma l’album intorno a cui ruota questo gioco di identità traslate merita il risalto avuto con questa operazione?
C’è da dire anzitutto che il cambio di identità è anche sonoro: proseguendo la strada più hard intrapresa con Silent Cry, i Feeder abbandonano i toni più melodici, le ballate acustiche, e le epic songs stile Feeling a Moment, e quindi non c’è più spazio per pezzi come Tumble and Fall o Love Pollution.
Semmai, lo stile ripreso è quello di Buck Rogers, o Godzilla, e questo è evidente sin dall’esordio di White Lines, pezzo convincente e dinamico, o della stessa Renegades, giustamente canzone-manifesto dell’album. Il problema è che canzoni punkeggianti come Call Out, The end, Sentimental, This Town, Home, City in a Rut, nelle quali tra gli altri soprattutto i primi Blur sono citati, non sono né sufficientemente dure né abbastanza melodiche da risultare compiute e di grande identità.
E l’album si muove incerto fra pezzi come questi, che rappresentano la vera novità del nuovo sound Feeder ma sono anche i meno vincenti (pur senza rappresentare quella svolta radicale che può essere intuita da un cambio di identità e di nome della band), e pezzi più vicini alla tradizione, che non saranno certo hard rock o punk come i Feeder non sono mai stati, ma proprio per questo sono i pezzi più convincenti perché legati al marchio classico della band che negli anni è riuscito a imporsi sulla scena inglese e trovare una sua collocazione di genere nel rimescuglio operato dalla scena indie.
Parliamo di pezzi come Down to The River, Left Foot Right, Godhead oltre al già citato esordio e alla title-track.
Complessivamente l’album suona comunque abbastanza Feeder e certamente gradevole, di sicuro più dell’operazione di restyling (anche della voce di Nicholas) di cui non si sentiva davvero il bisogno.
FULL LENGTH – FEEDER – ‘RENEGADES’ – UNCUT from Feeder on Vimeo.
Autore: Francesco Postiglione