Sono passati sei anni dall’uscita di “Funeral”, l’esordio degli Arcade Fire. Sono passati sei anni (qualcosa in più, in verità) da quando il nome di questi ragazzi iniziò insistentemente a circolare e si iniziava a scommettere su di loro, grazie a quel piccolo-grande capolavoro che all’improvviso li fece conoscere al mondo intero.
Solo sei anni, eppure sembra passata una vita. Nel frattempo una miriade di band sono diventate la “next big thing”, per poi sparire nel nulla un attimo dopo. Loro invece hanno fatto uscire un altro disco, meno d’impatto ma quasi altrettanto bello, e concerto-dopo-concerto hanno fatto crescere a dismisura il proprio numero di fan.
Gli Arcade Fire nel 2010 sono molto di più di un gruppo di culto. E’ una band che suona davanti a platee giganti, o in mondovisione-via-web. Hanno centinaia di migiaia di occhi puntati addosso, uno status da preservare ed una pressione enorme da gestire.
La sensazione che si prova ascoltando “The Suburbs”, il nuovo disco, è che in risposta a questa nuova dimensione la band abbia deciso di accantonare per sempre quell’approccio un po’ “naïve” e drammaticamente emozionale degli esordi, “razionalizzando” il proprio sound, raffinando il songwriting e gli arrangiamenti.
“The Suburbs”, per questi ed altri motivi, non è un capolavoro, diciamolo senza tentennamenti.
Ma gli Arcade Fire sono una band dalle qualità indiscutibili, che probabilmente non riuscirebbe a fare un disco brutto neanche mettendosi con l’impegno.
E’ un disco probabilmente troppo lungo, questo si. Con troppe canzoni che scivolano via senza graffiare, una produzione un eccessivamente levigata, ma pur sempre di una qualità complessiva al di sopra della media.
L’inizio, comunque, è davvero promettente: la title track, posta in apertura, è una ballad guidata da semplici accordi di piano, con una melodia e un ritornello che faranno breccia istantaneamente nei cuori dei fans; “Ready to start” ha un bell’incedere nervoso e graffiante; il ritornello di “Modern Man” è di quelli subdoli che ti s’infila sottopelle e neanche te ne accorgi. Poi si va avanti tra alti e bassi, e si arriva alla fine con un po’ di stanchezza. Da segnalare come in molti pezzi il “citazionismo” sia insospettabile quanto affascinante: “City with no children” ha un riff che sembra un omaggio ai Rolling Stones; il falsetto di “Deep Blu” profuma di Neil Young lontano un miglio; “Sprawl II” è una canzone disco-pop con un’enorme mirror ball che ci gira sopra, oltre ad essere una sorta di dichiarazione d’amore a Debbie Harry e i suoi Blondie.
Rimanendo nell’ambito delle “influenze”, in generale, la componente “Springsteeniana” pare abbia soppiantato del tutto quella dei Talking Heads, che pure sembravano uno dei punti di riferimento della band ai suoi esordi, anche per quanto riguarda alcuni temi trattati nei testi (la vita di provincia, le storie private, i viaggi in auto).
In definitiva: un disco che difficilmente vi cambierà la vita. Ma di dischi così ne escono uno ogni “tot” di anni. Dove il “tot” è un numero decisamente maggiore di sei.
Autore: Daniele Lama