Questo disco esce esattamente con undici anni di ritardo. Era il 1998 quando i Revelators, uno dei gruppi rivelazione del rinascimento rock’n’roll a stelle e strisce, di ritorno da un trionfale tour europeo assieme ai leggendari Oblivians, lo registrarono ad Austin con Mike Mariconda nelle vesti di produttore. Come ricorda il chitarrista John Schooley, appena rientrati da quel giro che aveva svelato al pubblico del Vecchio Continente il talento e l’incontenibile carica contundente del formidabile terzetto del Missouri, i Revelators si trovarono senza batterista. Ma non si persero d’animo. Assoldarono Bill Randt dei New Bomb Turks che fu felice di aggregarsi al gruppo per le registrazioni del secondo album. Le incisioni durarono appena due giorni, come si addice a un gruppo rock’n’roll dall’attitudine punk, ma subito dopo anche il cantante Jeremiah lasciò la band, decretando di fatto la fine dei Revelators. “Let A Poor Boy Ride” esce oggi per la Crypt, l’etichetta che aveva scoperto il trio e che avrebbe dovuto pubblicare anche questo disco. Sembra che il tempo si sia fermato: il secondo (postumo) Lp dei Revelators riparte esattamente laddove il gruppo aveva lasciato. Non a caso l’urticante brano che apre “Let A Poor Boy Ride” si intitola come il primo devastante album della band (e tra i capolavori assoluti del lo-fi rock’n’roll anni 90): “We Told You Not To Cross Us”. La miscela esplosiva è nota: rock’n’roll minimale, ridotto all’osso, scarnificato. Con una chitarra, quella di Schooley, che mena fendenti. Con Bill Randt che pesta sui tamburi. E con la voce alla carta vetrata di Jeremiah. Musica senza compromessi, vibrante, incisiva: da “Killin’ Me” al groove di “Jack Johnson” alla lenta “Rainin’ In My Heart” passando per le rasoiate di “Lone Star” fino alla conclusiva cavalcata di “Jitterbug Swing” il sound devastante dei Revelators torna a colpire nel segno. Dopo oltre dieci anni. Meglio tardi che mai.
Autore: Roberto Calabrò