In realtà non dovrei recensire i Pearl Jam. Troppi ricordi, troppo di parte,. Perchè lo faccio? Il fan è il miglior critico, se mosso da coerenza. Coerenza che i Pearl Jam non hanno abbandonato, e lo confermano con Backspacer: ciao ciao major (in Europa è solo distribuito dalla Universal, negli USA hanno raggiunto degli accordi commerciali con etichette indipendenti) e ritorno alle sonorità classic-rock con l’ausilio dello storico produttore Brendan ‘O Brien (da Yield, annus 1998).
Trentasette minuti di musica intensa, rabbiosa e punkeggiante, come in Supersonic (scheggia impazzita) e Gonna See My Friends (opening-track con riff alla Sex Pistols e sviluppo aggressivo), struggente (Just Breathe, ballatona post Into The Wild), pop nella forma (il singolo The Fixer), grunge nell’anima (Amongst The Waves, classico mid-tempo), consolatoria, sognante (Unthought Known, uno dei più belli), definitiva (The End, che non è un addio, speriamo). L’artwork dell’album, notevole, è affidato ai disegni surreali e coloratissimi dell’artista americano Tom Tomorrow, le tematiche di Backspacer (tasto della macchina da scrivere, che Vedder usa ancora per i suoi testi) si allontanano dalla querelle politica contro Bush e il sistema americano, e zoomano sui sogni, le paure, le fragilità. Certo è un Vedder ritemprato dal un nuovo amore e un figlio, e si sente. Le prime recensioni si spaccano a metà: chi li critica, accusa Vedder & co., di non evolversi, di insistere sugli stessi “trucchi del mestiere”.
Beh!, Pearl Jam hanno alle spalle una carriera ventennale (come dimostra l’edizione speciale di Ten), fatta di album capolavoro (Ten, Versus, Vitalogy), spiazzanti (No Code), rock’and roll (Yield), cupi (Riot Act, Pearl Jam), ma in fin dei conti, chi ha chiesto loro di cambiare?
Autore: Luigi Ferraro