Il quartetto del Lancashire composto da Ben Byrne (batteria), James ‘Stel’ Stelfox (basso), James Walsh (chitarra/voce), Barry Westhead (tastiera) con il suo quarto album torna alle sonorità che lo hanno reso famoso con Silence is Easy, l’LP che li rese noti anche qui in Italia nel 2004. Più che un ritorno agli esordi di Love is Here, come i membri hanno dichiarato (un album fortemente acustico, pieno di ballads folkeggianti), è il sound di Silence is Easy quello che gli Starsailor ritrovano, con la completezza degli strumenti e canzoni leggermente più strutturate e grintose, anche se non siamo al prosieguo della (pseudo-)svolta rock di On the Outside, l’album dell’anno scorso, il più elettrico della loro carriera fino a questo momento.
Fatti i dovuti confronti, la prima cosa che può dirsi è proprio che la band presenta un suo proprio sound facilmente riconoscibile, un pop molto raffinato e strumentale che richiama e a volte cita (anche per le incredibili somiglianze vocali) i Waterboys degli anni ’80, e che anche in quest’album sembra non voler cambiare molto. Questo produce certamente continuità, coerenza e riconoscibilità, quasi un marchio di fabbrica, però anche un po’ di stanchezza, anche perché All the Plans non ha la freschezza di pezzi come Music was Saved, né la grinta rock di On the Outside, né la forte impronta malinconic-acustica di Love is Here.
Inizia bene, con il singolo di lancio Tell me it’s not Over, dinamica e melodica, ma già con Boy in Waiting ha una flessione di ritmo. The Tames e Neon Sky sono forse i vertici dell’album (dove il gruppo davvero sembra evocare i Waterboys redivivi) intervallate da una piacevole e nostalgica All the Plans che funziona bene, e ha il vanto di avere un Ron Wood che accompagna le chitarre (ma non ne riconoscereste lo stile). Il suono è sempre pulito, molto curato, anche grazie alle attenzioni di Steve Osborne, loro storico produttore, ma complessivamente non esplode, e non fa gridare al capolavoro.
Una ballata springsteeniana come Safe at Home chiude l’album che conosce anche un momento politicheggiante con Stars and Stripes, dedicata ai veterani del Vietnam, ma di certo il gruppo di James Walsh si trova molto più a suo agio con le atmosfere nordiche da nebbia del Tamigi evocate da canzoni come Hurts too Much o Change My Mind.
L’impressione complessiva è che ci sia bisogno di qualcosa da rinnovare, prima che il gruppo, ancora in erba tutto sommato, finisca semplicemente per citare se stesso in sterili ripetizioni. All the Plans può essere allora in questo caso l’album della riflessione prima della svolta. Difficile che possa candidarsi a rappresentare qualcosa di più.
Autore: Francesco Postiglione