Gruppo indie pop sottilmente cervellotico, mai banale, soltanto omonimo di una prog band tedesca degli anni 70 di cui nessuno ricorda più. I giovani americani Lake si stanno facendo notare, con quest’album di debutto, ed il loro soul pop da cameretta in bassa fedeltà e dai toni morbidi, con voci maschile e femminile, arricchito però con strumentazione varia (sax, tromba, tastiere, synth, chitarra, basso, batteria e percussioni jazz, handclaps…) suonata dai numerosi componenti – che ruotano in ogni caso intorno ad Ashley Eriksson, Eli Moore, Lindsay Schief ed “-A” – affascina, non certo come una calamita, piuttosto come un pensiero insinuatosi distrattamente ma che non va più via, sebbene gridare al miracolo non è ancora possibile. Impossibile poi non notare la somiglianza di questa band di Olympia, con i canadesi P:ano e con il loro recente side-project No Kids; minore uso del synth, certo, ma identica tenue indolenza vocale dei cantanti, in piccole composizioni casalinghe rassicuranti ed intime, seppure a loro modo profondamente positive, piacevoli, che accennano vagamente alla caraibica, ed arrangiamenti originali e curati. Musica pop non certo usa e getta, rivolta direi ad un pubblico trentenne, almeno, proprio come scrivemmo l’anno scorso per il disco ‘Come into my House’ dei No Kids, e le prime due canzoni in apertura, l’omonima ‘Oh, the Places we’ll Go’ e ‘Blue Ocean Blue’, lo confermano, con chiari risvolti jazz che i teenager verosimilmente non gradirebbero; tutto è rigorosamente composto a partire dalla tastiera, e poi arricchito in fase d’arrangiamento con soluzioni non comuni; e riescono a non essere banali nemmeno nelle poche tracce relativamente più veloci, come ‘Counting’, che contiene in ogni caso curati cambi di ritmo, o nel dittico ‘Dead Beat’ ed ‘Heaven’, pop song più ordinarie – ossia senza i forti risvolti soul jazz – ma non per questo buttate lì. Sia chiaro: l’anima dei Lake è nelle cose più complesse e strumentalmente ricche: e dunque ‘Oh, the Places we’ll Go’, ‘Blue Ocean Blue’, e poi ‘Bad Dream’, e ‘On the Swing’. Importante il contributo dei fiati, sbagliata però la rigida alternanza del cantato maschile e femminile nelle canzoni: Ashley Eriksson ed Eli Moore cantano infatti troppo poco insieme nella stessa traccia: al limite, in ‘Heaven’, lui canta e lei fa i cori, mentre nella sognante ‘On the Swing’ viceversa.
Autore: Fausto Turi