Inizia con un coro cupo e tremendamente triste (All you see) il nuovo splendido album di Josh Tillmann già nei Fleet Foxes, davvero qui cavaliere del folk più moderno e ricettivo di tutte le correnti rock che hanno attraversato questi decenni. L’americano Tillman, proveniente da Seattle anche se nato a New York, sembra un Woody Guthrie che ha conosciuto il punk, il grunge, e l’alternative rock: accanto a melodie semplici ed efficaci, sempre rigorosamente acustiche, come No Occasion, affianca canzoni dolorose e malinconiche, che sembrano versioni acustiche dei vari Curt Cobain, Tom Waits e Tom Yorke in loro forma massima.
Ciò si deve soprattutto alla voce, quel timbro particolare capace di dare colore ad accordi semplici e poco elaborati, capaci di dare il giusto tono “post-moderno” a ballate che altrimenti potrebbero sembrare una ripetizione di Dylan, Neil Young e Springsteen. Anche se l’immediato paragone è con uno dei suoi modelli, Nick Drake. Godetevi come trasforma First Born, Vessels, Someone with Child o Laborless Land in ipnotici canti senza tempo che sembrano cantare il dolore universale, oppure come Steel on Steel o New Imperial Grand Blues rilanciano la gloriosa tradizione del country-blues. Per niente anacronistiche, le melodie disegnate da Tillman sembrano provenire dal vecchio West, ma cantano la sofferenza e la solitudine moderni, anzi modernissimi, e si sente in ogni nota.
La sua voce, appena sussurrata e mai gridata, sembra la voce stessa di un’America che cerca di ritrovarsi dopo essersi perduta, pur non volendo in nessun modo essere un’icona o una bandiera politica come altri famosi folksingers.
Semplicemente da gustare fino in fondo, Vacillando Territory Blues è la giusta introduzione all’ascolto dell’intera discografia (5 album fin qui pubblicati) di questo sorprendente autore di nicchia.
Autore: Francesco Postiglione