Con il terzo disco, gli Hot Chip compiono un salto di livello probabilmente definitivo, non direi, attenzione, in termini di qualità, che nei due loro precedenti episodi del 2004 e 2006 era la stessa, molto buona, quanto rispetto alla ricercata fusione di rock ed elettronica, ormai totale ed inscindibile: non più un’alternanza di brani indie rock e disco-funk, ma tutto, che contemporaneamente accade, nel medesimo pezzo. E sono i dischi come questo – pensiamo anche ai recentissimi lavori di Lcd Soundsystem, !!!, Chrome Hoof, Hebden/Reid, Radiohead ed Holden – che divengono punti di riferimento istantanei per tanti artisti meno creativi che poi seguono a ruota nei due tre anni successivi; dischi che – sarà un bene o un male – possono indirizzare futuri sviluppi musicali, mettendo persino paletti; e c’è da scommettere che, chi vorrà andare oltre gli Hot Chip, con l’electro o la disco-punk, nei prossimi anni è da qui che dovrà passare. Anello mancante tra Talking Heads e New Order, come molti stanno scrivendo? Non esageriamo, ora. Alcune annotazioni estemporanee: 1) rispetto al passato, musicalmente gli HC hanno ormai definitiva sicurezza in sé stessi, fanno ciò che gli passa per la testa più che mai, malgrado si potesse temere che l’impegnativo contratto con la Emi del 2006 li avrebbe obbligati a rigare diritto, rischiando poco; 2) un po’ come i Radiohead, gli HC dimostrano che è possibile fare musica figa senza badare al look: a vederli, sembrano davvero 5 sfigati dallo sguardo disturbato, il cui poster difficilmente attaccheremo in cameretta; 3) gli HC sono inglesi, e diciamoci la verità: è dai tempi di Massive Attack e Primal Scream che il rock elettronico britannico mangiava la polvere dei gruppi americani.
Le 13 canzoni per 56 minuti di questo ‘Made in the Dark’ del 2008, piaceranno a rockettari e discotecari, triturano infatti indie rock, disco con schegge techno, e soul-funk – quest’ultimo ritmo finalmente più sfruttato che in passato – con tre parole d’ordine: follia, rischio, divertimento. E non vanno per il sottile, se bisogna far ballare, e l’istinto chiama: infilano anche il suono cafone, il ritornello sbracato ripetuto 3 volte, per poi magari ricomporsi e concludere la canzone con una piccola ed elegante sinfonia glitch, manco fossero degli snob dj giapponesi. Emblematici i tre singoli predestinati: ‘Hold on’, già un tormentone in internet, o ‘Shake a Fist’, col campionamento della voce di Todd Rundgren, o ancora ‘Ready for the Floor’, già il titolo tutto un programma. Ma a me, che discotecaro non sono, piacciono di più i pezzi che piegano, morbidi, verso il soul, denunciando l’ultima frontiera della band: tra questi, ‘We’re Looking for a Lot of Love’, che molti prenderanno per un semplice intermezzo lento, ma, hey!, racconta della solitudine…
Autore: Fausto Turi