Fino a qualche mese fa il Darfur era l’esempio più lampante della disinformazione mondiale, l’esemplificazione di come neanche un evento così enorme, un genocidio così feroce, esista se i media (tradizionali) non ne parlano. E fino a qualche mese fa non se ne parlava (a parte sporadiche apparizioni; forse la più famosa, mediaticamente parlando, fu il Sanremo di Bonolis).
Insomma i media avevano cancellato il Darfur dall’agenda. Ma sotto le ceneri, questa brace covava fitta, grazie anche all’impegno di associazioni, canali alternativi e anche all’impegno di qualche testimonial d’eccezione. Alcuni tra attori e musicisti, nel corso delle interviste tornavano sempre sull’argomento, e oggi il Darfur è un problema che, seppur non riempiendo le pagine dei giornali, ha comunque una sua, seppur minima, visibilità costante (che non significa che la soluzione al problema sia vicina).
Proprio in questi giorni è uscito un singolo dal nome Living Darfur, e a cantarlo sono i Mattafix (duo formato da Marlon Roulette e Preetesh Hirji). Non credo che abbiano bisogno di tante presentazioni. Basterebbe ricordare Big city life che è, forse, il miglior biglietto da visita.
Questo primo singolo, tratto dal loro nuovo album Rhythm & Hymns, che è uscito il 12 novembre, è accompagnato da un video che ormai è in heavy rotation sui maggiori canali musicali nazionali (video girato in un campo profughi al confine tra Chad e Darfur). All’epoca del “botto” con Big city life (l’album era Signs of a struggle, l’anno il 2005) si parlò di loro come di una grande promessa del panorama musicale britannico, sebbene il tormentone superò abbondantemente i confini inglesi.
“You don’t have to be extraordinary just forgiving, of those who never heard your cries. You shall rise”, come recita una parte di Living Darfur, un grido di speranza, cantato con quel cantato androgino, marchio di fabbrica di Marlon, che nell’attacco di Shake ya Limbs, quasi ti fa credere che a cantare sia un’ospite femminile
Rhythm & Hymns ha subito l’influenza del lungo tour mondiale protrattosi per un anno e mezzo, toccando tantissimi paesi, e soprattutto tantissime culture che, come ammettono i Mattafix, hanno influenzato notevolmente i ritmi di questo secondo album, che spazia tra diverse culture musicali, portandosi appresso le esperienze più varie. Se Living Darfur ha i ritmi propri della tradizione africana, all’interno dell’album non possiamo fare a meno di notare come si passi dall’hip hop al dub, a volte sembra trip hop sconfinando successivamente in sonorità blues.
Anche i testi sono un portato dell’esperienza live.
Testi sempre impegnati, vedi Shake ya limbs, la canzone che apre l’album, in cui è ancora la guerra protagonista; canzone scritta subito dopo un concerto tenuto a Tel Aviv, quando ci fu l’invasione del Libano, e molte delle persone conosciute lì furono mandate a combattere. “And my friends are far away, And I wonder if they’re ok, And I wonder if the times have changed, And I thought that I saw your face. Are you safe?”. Ma anche testi personali, e sempre la sensazione che a fare da cardine centrale sia una domanda: Le cose possono cambiare?
Una base trip hop accompagna Angel on my shoulder, ma sarebbe sbagliato procedere per compartimenti stagni, laddove la mescolanza dei suoni cerca di essere una voce a se stante. Una cosa è certa, quest’album suona sicuramente molto più orecchiabile rispetto al precedente, come ammettono anche gli stessi Mattafix, con una produzione non indifferente (Jim Abyss, ancora in sella dopo il successo dell’album d’esordio, e Jason Cox) e, soprattutto, con la convinzione che “young songwriters have more influence than most politicians put together“, come dice Marlon.
E a volte sarebbe bello poterci credere.
Autore: Francesco Raiola