Siete in cerca di un disco che faccia delle vostre prossime giornate natalizie un piacevole viaggio verso atmosfere e contrade sonore che avete avuto sempre lì, dietro l’angolo e che per qualche motivo non avete mai visitato? Bene, la disarmante semplicità e la sottile e sfuggente ironia di “Unfairground”, l’ultimo album di sir Kevin Ayers può soddisfare le vostre esigenze.
Dopo ben 15 anni di distanza dall’ultimo lavoro, Ayers ritorna in sala d’incisione confezionando un album di canzoni deliziose, pastiches patafisici, dada-ballad, ragtime che per altro hanno da sempre caratterizzato la sua produzione solistica anche se con alterni risultati. Un vero luna park che s’intravede sfuocato dalle appannate e piovose finestre di casa vostra.
Il nostro menestrello di Canterbury e co-fondatore dei Soft Machine ci ha da sempre abituati a concepire le sue canzoni come piccoli tesori da scoprire ascolto dopo ascolto, proprio a partire dagli esordi della sua carriera solistica post Soft Machine con dischi straordinari come
“Joy of a toy” (1969), “Shooting at the moon” (1970), e “Whatevershebringswesing” (1972).
Ayers ha un modo unico di bilanciare malinconia esistenziale (il “weltanschauung” dei poeti romantici tedeschi), una gioia di vivere quasi infantile, l’eccentrico sense of humour della tradizione britannica, un’elegante nostalgia, un languore sensuale, il fascino dei paesi esotici, la passione per le lullabies, e la psichedelia.
Le sue canzoni sono spesso centrate su ritornelli elementari, ma Ayers le perturba con un ricco catalogo di effetti sonori, e senza l’austero decor di un compositore classico, bensì con una nonchalance quasi criminale.
Caratteristiche che dunque ritroviamo in Unfairground, che ci riporta proprio ai primi tempi superando felicemente i più sfortunati lavori della fine degli anni 70 e degli anni 80 seppur mai scontati.
Il disco conta di rodate e interessanti collaborazioni tra cui la straordinaria vocalist Candie Payne, più alcuni vecchi compagni d’avventura come Phil Manzanera, Robert Wyatt (in “Cold Shoulders) e Hugh Hopper, nonché il duetto con Bridget St.John, folksinger amatissima da John Peel nei primi settanta, in “Baby Come Home”. I momenti più alti dell’album sono in “Only Heaven Knows”, che affronta il tema della mortalità, passando per le melodie di “Cold shoulder” e “Walk on the water ” dedicata all’amico Barrett, la scanzonata “Run run run”, per arrivare a “Brainstorm“, dove una epica follia orchestrale di matrice jazz ci ricorda il periodo Soft Machine. Ma in ogni brano spunta il tocco inatteso, un segnale di altissima originalità, una generale aria di joie de vivre che contrasta con i testi profondi. Kevin Ayers: padre della psichedelia inglese, idolatrato da personaggi del calibro di David Bowie e Brian Eno, conferma con questo album il suo posto tra i grandissimi.
Buon natale patafisico a tutti.
Autore: Luigi Vitelli