Per fortuna che oggi c’è ancora chi ha voglia di sperimentare e di entrare in territori angusti e sconosciuti come fanno gli Antrofobia. Come sempre la band torinese non fa dischi di facile impatto, ma complicati e profondamente introspettivi. Quest’ultimo lavoro trasmette lo stesso dramma dell’incomunicabilità espresso al cinema da Antonioni, per la rarefazione dei suoi brani, tra l’altro tutti registrati in rigorosa presa diretta, in sole due sessioni, senza sovraincisioni. Il loro approccio alla sperimentazione è intrinseco al jazz, che possibilmente più free, magicamente espresso dai guizzi del sax contralto nelle tracce dalla quinta alla nona. Negli altri brami, invece, a farla da padrone è la frammentazione pura, nella quarta traccia addirittura vengono dette parole sparse molto distanti l’una dall’altra, qualcuna addirittura interrotta e subito dopo, quasi improvvisamente un sax percussivo che fa il suo ingresso. Ciò che colpisce della frammentarietà è la batteria spezzettata, quasi un sintomo di una rabbia inespressa o espressa con difficoltà, quasi drogata da psicofarmaci che impediscono un movimento continuo, che al contrario si lascia andare in modo saggiamente anarchico quando parte il free jazz. È vero di contrasti ce ne sono molti in questo disco, volutamente non lineare e proprio per questo magicamente intrigante e pieno di segreti da scoprire ad ogni ascolto.
Autore: Vittorio Lannutti