Con la crisi che attanaglia attualmente il mercato discografico mondiale, i nomi più in vista di questo settore rischiano seriamente di subire delle “pressioni” non indifferenti (il caso Coldplay docet…). Se poi si ha quasi un quarto di secolo sul proprio groppone, è ancor più facile cadere nella tentazione di accontentare i fans, giocare sul sicuro, perpretando la formula stilistica per cui si è conosciuti. Non hanno messo in atto nessuna abiura i Depeche Mode eppure, “Playing The Angel“, il loro nuovo album, ha le credenziali necessarie nel confermare il trio inglese come uno dei nomi di spicco nella categoria delle “vecchie glorie”, adatte a tutte le stagioni.
Complice la sapiente mano in cabina di regia di Ben Hillier, Gore, Gahan e Fletcher hanno recuperato suoni, appartenenti all’era analogica dell’elettronica. Un passo indietro che, ad ogni buon conto, si permea alla perfezione con i nuovi brani, senza che quest’ultimi appaiano datati e fuori contesto, dato che anche i Depeche Mode sono perfettamente coscienti di trovarsi nell’anno di grazia 2005. Avendo attraversato lo sviluppo della tecnologia musicale in prima persona, oggi come non mai sono in grado di offrire un prodotto che fa dell’esperienza accumulata nel frattempo, il suo punto di forza. Non solo. Nelle dodici canzoni qui presenti, la media qualitativa è, in vero, molto alta.
I pezzi più veloci, come le iniziali “A Pain That I’m Used To” e la vagamente blueseggiante “John The Revelator” hanno il tiro dei giorni migliori. Il singolo apripista “Precious” è la tipica synth-ballad dei nostri, melodica sì ma non in maniera sfacciata. Ottimi anche i due episodi, “Macrovision” e “Damaged People” (con Martin Gore alla voce) dallo spessore meno immediato rispetto al resto della scaletta e forse, proprio per questo, fra i preferibili dell’intero lotto. Sulla scia di cotanto entusiasmo anche Dave Gahan (un vocalist che conferma di essere nel pieno della sua maturità artistica) azzecca la zampata vincente. La sua “Suffer Well” merita senz’altro rispetto mentre le rimanenti composizioni (“I Want It All”, “Nothing’s Impossibile”), da lui concepite (le prime, dopo tanti anni in seno al gruppo), non sembrano troppo convincenti.
Qualche colpo a vuoto nelle battute finali, di certo, non inficiano il giudizio finale sulla bontà di “Playing The Angel”. Dovesse essere il loro passo d’addio sarebbe il classico canto del cigno. Così non è, fortunatamente, almeno per il momento. Allora tanto vale goderseli i Depeche Mode, finchè si manterranno su questi livelli….
Autore: Luca M. Assante