A mezz’aria, con la tensione costantemente sospesa, lungo le linee armoniche che prendono quota col trascorrere delle note. Così scivolano le costruzioni dei dEUS, redivivi e innegabilmente vegeti, al punto da crearsi un ampio ambito pop dove volteggiare le ormai rare “canzoni”. Merce diventata superflua nelle economie produttive di tante rockstar, nelle intenzioni intellettualoidi e inutili di sperimentatori e avanguardisti colpiti dalla ossessiva vocazione del nuovo come assurdo, come strano e inesplorato, a lambire il disgusto e il disamore ormai comuni per chi nella musica cerca una lineare sequenza, viva e riconoscibile al tatto, e magari, pardon, all’udito. Pocket Revolution, rivoluzione da taschino, in misura portatile e soprattutto umile: c’è il gusto per le sonorità, l’uso equilibrato di archi e levate d’ellettronica, ma c’è il giusto ruolo delle canzoni, le risalite e i crescendo, l’obliquità che fa da corollario, mai da presupposto, alla materia dell’ensemble belga.
Come dei Radiohead a bagno nel vecchio mestiere pop, con la voce particolare eppure sentita di Tom Barman, al punto g nascosto nella media lunghezza dell’onda musicale, libera nell’aria, sciolta dalle istintive aggressioni dell’esordio, Worst Case Scenario, tornata nell’etere, leggermente più easy rispetto ai sottosuoli formali di quel vecchio bar, Under The Sea, col cuore melodico ricoperto dal rifiuto dei canoni formali. Bei tempi, per carità ma capirsi diventa il bisogno fondamentale, come se all that you can’t leave behind fosse emigrato in Belgio raggiungendo lo scopo in modo perfetto ed equilibrato. L’inizale “Bad timing” introduce da subito la giusta domanda, “Do you realize to look in to her eyes, and to let her go”; magari si parla di lei, la musica, che prende il suo spazio con estrema naturalezza, di volta in volta. Intrecci di chitarre crescono e attraversano la voce, con un esito travolgente per fasi e picchi emotivi, nel flusso di “If you don’t get what you want”; “What we talk about (When we talk about love)” invece è un ricamo a due stoffe, steli di gola che si rincorrono distendendosi; “Include me out” è grazia e sussurro, invocazione che disegna vuoti sul piano. La torre di guardia avvista e introduce spade in forma di chitarre, così le corde stagliano l’attacco di “Nightshopping”, erotico e diretto rock’n roll, musica per organi caldi dal centro Europa, lasciva, prodiga di sensualità come lumaca che schiuma bava. Il tono rimane simile con “Cold sun of circumstance”. Le parole, in questo caso “It’s a devil in the blood, baby”, non lasciano altre ipotesi al riguardo.
“The real sugar” ha le fattezze di un piacevole brivido, sottopelle e sottotraccia, in memoria del morphine-man Mark Sandman, prima delle orchestre in posizione d’attacco di “Sun ra”, inequivocabile spartito di approssimazioni jazz, dove vaghi canovacci fanno da stella d’orientamento per strategie che sviluppano la furia, tutta meditata lungo un ritorno in perfetto understatement. Proprio come il nome dEUS, con la lettera piccola, tra la piccola rivoluzione del titolo e il piccolo dramma triste di “Nothing really ends” che si nasconde, pudico, dietro il sipario.
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore