Strano “animale” Dave Longstreth. Sul progetto Dirty Projectors – solista, a dispetto del plurale – ci eravamo già soffermati lo scorso anno per l’album “Slaves’ Graves and Ballads”, realtà composita nel suo riunire due precedenti EP dal contenuto sostanzialmente poco uniformabile: sinfonico orchestreale uno, folk-acustico – anche se in senso molto poco canonico – l’altro. L’analisi di quel lavoro, e relativa conclusione cui riuscimmo comunque a giungere, non ci convinse granchè. Non eravamo infatti perfettamente consapevoli di dover scandagliare una personalità ermeticamente complessa e poco inquadrabile, evidentemente attraversata in lungo e in largo da ossessioni assimiliabili tanto al “manipolazionismo”, e a un certo “misticismo registratorio”, degli Olivia Tremor Control, quanto alla scrupolosa ricerca sonora e alla cura dei dettagli di un Brian Wilson – che degenerino o meno in follia perfezionista.
E’ questo “The Getty Address” a metterci su questa strada, unitamente alla questione sul come affrontare, criticamente, opere che siano frutto di simili complessi approcci al lavoro discografico – nonché concezioni dello stesso. E’ il solito problema del rapporto che intercorre – o che debba intercorrere – tra fruibilità e giudizio. Siamo tendenzialmente riusciti a “entrare”, in qualche modo, nei lavori di ricerca timbrica, nelle scomposizioni e ricomposizioni di suoni – intesi come unità prime di vibrazione – ma ci sfugge ancora, se non il pregio, almeno il nocciolo del senso di lavoro di frazionamento e risequenziazione di melodie – più che di semplici (per modo di dire) fonti sonore.
Un lavoro del genere richiede inoltre – ovviamente – una padronanza (intesa anche come materiale disponibilità ad libitum) degli strumenti di registrazione. Staremmo già parlando di “The Getty Address”, ma è ancora troppo poco per Longstreth. C’è infatti, nel materiale, la congiunzione per così dire logica di un concept, che è addirittura doppio (!!): da un lato la trattazione di Don Henley, il leader degli Eagles (a mezzo dell’uso di testi sparsi qua e là per il “Greatest Hits vol. 1” di costoro); dall’altro – e siamo agli antipodi, ma veramente – la cruda e sanguinosa sopraffazione di matrice cattolico-protocolonialista con cui Cortes e i suoi Conquistadores massacrarono Aztechi e le millenarie civiltà pre-colombiane. Di contorno, copertina e (soprattutto) relativa grafica testuale decisamente criptici.
Tutto questo senza far partire ancora il disco, o quasi. Che per il tramite di due fili conduttori così spessi non trova mai una vera e propria soluzione di continuità nell’arco dei 13 brani di cui si compone. Ed eccola, impietosa, la “spia” rossa della fruibilità ad accendersi. Quella che fa sottovalutare, ahimè, il lavoro mostruoso compiuto da Dave. Mi spiego meglio: per quasi un’ora, tra glitch, cut-and-paste, nastri in riavvolgimento o in false partenze e ripartenze, striscia sinuosa e quasi ipnotica un’alternanza di melodie stranianti e temi da fanta-musical/fanta-opere (operette?) moderne – su cui si stende l’implacabile falsetto di Dave – risultato di partiture scritte per cori (il Brown Finch), ottetti e (affollata) roba del genere (la Orchestral Society for the Preservation of the Orchestra), registrate in 3 diversi stati dell’Unione, ri-trattate secondo modalità approssimativamente già descritte (e il ragazzo non ha che 23, massimo 24 anni…). Un talento che mette riverenza, niente di meno, se non disagio, ma ciò anche in dipendenza della scelta di un linguaggio, appunto, tutt’altro che facile. Sto girando un po’ in tondo, me ne rendo conto, e chiudo: chi è stanco del rock ed è già da tempo “oltre”, proteso a “liberalizzare” i limiti di senso alla sperimentazioni, non staccherà le orecchie dai Dirty Projectors. A tutti gli altri sarà difficile far capire che “The Getty Address” è un capolavoro. Non l’ho capito neanch’io, e in fondo non sono neppure sicuro di chi, in questo momento, stia scrivendo…
Autore: Bob Villani